Non sono l’uno per cento PDF 
federico   
di Enrico Maria Artale
Il rinnovato interesse per il documentario è uno degli argomenti più trattati negli ultimi anni da storici e critici del cinema. Fermarsi tuttavia a generalizzazioni teoriche di questo tipo può essere rischioso, impedendo di fatto un'indagine sulle ragioni e le modalità secondo cui un cinema intrinsecamente alternativo alla fiction (alla finzione cinematografica, ma anche, sempre di più, alla mediocrità della fiction televisiva) possa svolgere un ruolo fondamentale nell'evoluzione del mezzo filmico.
Mettendo da parte ciò che solitamente, non senza alcune sostanziali difficoltà, si definisce docu-fiction, e che rappresenta effettivamente uno degli ambiti in cui è possibile registrare reali intenzioni innovative, bisogna tenere ferma, malgrado l'ambiguità dei termini, la distinzione di principio tra il documentario "narrativo" e il documentario d'inchiesta (o reportage), anche se ovviamente questa distinzione può risultare a volte assai sfumata nella pratica reale, laddove non sempre è possibile riportare i singoli lavori ad un filone determinato. Per quanto riguarda dunque il primo caso possiamo riscontrare un cambiamento di tendenza, anche soltanto nell'interesse del pubblico, che ha permesso a lavori recenti, come Essere e avere di Nicolas Philibert o Il grande silenzio di Philippe Gröning, di ottenere insperati successi internazionali. Se invece facciamo riferimento al lavoro d'inchiesta sarebbe forse improprio parlare di un reale incremento produttivo, ma piuttosto, e questo è comunque un segnale importante, di una maggiore disponibilità da parte dei distributori anche per quel che riguarda i circuiti ufficiali, a fronte del riscontro commerciale ottenuto da registi come Michael Moore.
Appartiene dunque a questo secondo gruppo il documentario di Antonio Morabito, che si propone una ricognizione storica e al tempo stesso attuale su una realtà a suo modo unica, la forte presenza anarchica nel territorio del carrarese, cercando di approfondirne tanto le origini quanto le originali direzioni politiche percorse negli ultimi anni, in equilibrio tra situazioni locali e problemi culturalmente ed economicamente trasversali. La struttura discorsiva ruota attorno alle conversazioni con Alfonso Nicolazzi, figura cardine dell'anarchismo italiano, i cui interventi costituiscono una sorta di filo rosso su cui possono inserirsi di volta in volta altri personaggi di spicco del movimento: artisti, storici, operai. Forte della sua compenetrazione con la città, il giovane regista carrarese costruisce un film vivificato dalla presenza umana degli intervistati, mettendo da parte qualsiasi atteggiamento di imparzialità distaccata nel tentativo di spingere la telecamera ad una prossimità concreta con le parole e le emozioni degli uomini, per restituire una sincerità confidenziale. Ne esce un'immagine della politica, ossia del fare politica, e dell'anarchismo, felicemente immersa nel quotidiano.
Ciò che al più manca, ma forse era inevitabile avendo scelto un simile approccio, è un'esaustiva delucidazione teorica. Dal momento che il film aspira giustamente a configurarsi come una sorta di introduzione al pensiero e alla realtà anarchica, con apprezzabile didatticismo, lo spettatore sente l'esigenza di un maggiore approfondimento sulle questioni cardine dell'idea libertaria. Il documentario si impegna ragionevolmente a sgombrare il campo da comuni pregiudizi e mistificazioni al fine di chiarire innanzitutto cosa l'anarchismo non è, distinguendolo dalle formazioni ideologiche scorrette e affrettate cui spesso viene associato; al tempo stesso cerca, attraverso accenni, di sottolinearne le differenze rispetto ad un volgar-marxismo di ispirazione stalinista, una posizione politica che tuttavia ad oggi risulta effettivamente insostenibile, malgrado rispecchi ancora le concettualizzazioni di qualcuno. Laddove a nostro avviso il confronto necessario, per illustrare appieno la specificità della politica anarchica, avrebbe potuto essere quello con un più moderno marxismo critico, a partire dalla Scuola di Francoforte, a cui peraltro i personaggi intervistati sembrano richiamarsi idealmente nell'analizzare i meccanismi economici della società capitalistica. Pur volendo sostenere la legittimità di una posizione (sarebbe ingenuo accusare il film di essere di parte, perché essere di parte è semmai una determinazione positiva del film stesso), l'assenza di dialettica con una posizione altra, seppur all'interno di una analoga matrice politica, priva il lavoro di una possibile tensione, che avrebbe forse contribuito a rafforzare la peculiarità dell'espressione libertaria. Tuttavia, va ribadito come la scelta di muoversi all'interno di un ambito relazionale circoscritto è pienamente giustificata dal tentativo, senz'altro riuscito, di guadagnare sullo schermo il clima di sincera amicizia e fraternità che circonda i protagonisti.
Da un punto di vista tecnico, a cui si dovrebbe sempre prestare molta attenzione guardando un documentario, è importante sottolineare un uso efficace della camera e soprattutto un ottimo lavoro di montaggio. L'idea decisiva, di ispirazione quasi dardenniana, consiste nell'alternare, anche mediante sovrapposizioni tra audio e video, i volti degli intervistati alle loro azioni quotidiane, ai gesti del loro mestiere; generalmente si tratta del lavoro svolto in una tipografia, che in una bella sequenza possiamo ammirare nel suo puro funzionamento meccanico, ormai priva, inquietantemente o meravigliosamente, di qualunque presenza umana. Il film ne guadagna in concretezza ed evita di scadere in un televisivo assemblaggio di immagini precostruite, permettendo ai materiali d'archivio di inserirsi con forza e puntualità, in maniera mai banale e scontata (in particolar modo negli spezzoni tratti da Mouchette e da Che cosa sono le nuvole?). La colonna sonora accompagna con coerenza le immagini senza esagerarne i tratti emotivi, preferendo seguire il contenuto politico piuttosto che la comunicatività della musica. Una sotterranea progressione narrativa, sostenuta dal procedere cronologico dei resoconti storici, anima il documentario, soprattutto a partire dal viaggio di Alfonso, che si reca a Torino per un dibattito sugli inceneritori. In questa conferenza, che regista e montatore hanno intelligentemente spezzettato lungo l'arco della seconda metà del film, la narratività è testimoniata da una considerazione di tipo metodico-politico svolta da Alfonso, e più tardi ripresa da un ragazzo del suo uditorio, quasi a voler testimoniare l'avvenuta ricezione del messaggio.
A definitiva e tragica conferma di quanto detto il conclusivo "colpo di scena" (e qui volutamente misuriamo la profonda inadeguatezza dei termini tradizionalmente legati alla narrazione per descrivere la realtà). La dedica dell'intero lavoro allo stesso Alfonso lascia intuire, in termini veramente disarmanti per lo spettatore, la prematura scomparsa di quest'ultimo, avvenuta non molto tempo dopo la fine delle riprese. Solo nella conclusione quindi, senza aver avuto il tempo per sviluppare un discorso apologetico, il documentario assume lo statuto di un omaggio commosso: è merito del regista non cedere alla tentazione di costruire un monumento alla memoria di Alfonso Nicolazzi (operazione peraltro più che legittima), tenendo vivo nel documento l'impegno civile quale motivazione assolutamente principale.
In questo senso, infine, è bene lodare l'iniziativa del produttore Rean Mazzone (per la Dream Film) che sembra portare avanti attraverso questo ed altri lavori, tra cui recentemente l'ottimo Il mondo addosso di Costanza Quatriglio, in cui si ritrova la stessa attenzione per i gesti del lavoro quotidiano, un progetto di arricchimento autoriale del documentario d'inchiesta sociale, in grado di guadagnare una distribuzione sufficiente per aspirare ad una sensibilizzazione sui temi scelti, per di più nell'ambito di una coraggiosa scommessa sui giovani registi. Non resta che augurarsi uno sviluppo prolifico di questo progetto, la cui idea produttiva è in sé un'idea politica.
NON SONO L’UNO PER CENTO
(Italia, 2006)
Regia
Antonio Morabito
Sceneggiatura
Antonio Morabito
Montaggio
Stefano De Santis
Fotografia
Antonio Morabito
Durata
75 min
 


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