Una vita “di spalle”, quella di Serge Pilardosse. Una vita vissuta a testa china, un’esistenza caricata su spalle possenti e un po’ ottuse, chiuse in un mutismo fisico e dialettico, in occhi dagli sguardi vuoti e porcini come suini cadaveri da cui trarre gustosi prosciutti. Occhi vuoti come di mammuth imprigionato da strati di ghiaccio che congela e conserva, fino al palesarsi di estati che sciolgono e riscaldano.
Alle soglie della pensione, per Serge nulla da stringere se non un puzzle da 2000 pezzi. E l’amaro di scoprire, di capire per bocca della stanca consorte, che la vita lo ha burlato, che il prossimo s’è fatto gioco della sua fanciullesca stupidaggine. Che nessuno ha mai preso sul serio quel suo corpo grande e grosso, possente, eppure goffo e gentile al contempo, e, che, infine, i suoi datori di lavoro si sono fatti beffe della sua dedizione, tanto che adesso non potrà percepire la meritata pensione. Eppure Serge non batte ciglio. Non solo non accenna a moti d’ira, ma neppure di stupore. Non si scompone, ma munito di caparbietà elefantina inforca la vecchia moto e inizia un viaggio attraverso i luoghi e i visi della sua gioventù per rimettere insieme i contributi mancanti e i pezzi della sua disastrata vita. Sembra il ritratto della stupidità questo Serge Pilardosse, operaio pensionato di mattatoio, ex becchino, ex buttafuori, ex bracciante agricolo, ex giostraio … ex. Sbeffeggiato, derubato, schernito, coinvolto in una girandola di incontri improbabili e surreali, fino all’approdo nel giardino fantastico popolato di bambole martoriate creato dalla stralunata nipote. Figlia di un fratello morto e mai realmente conosciuto, che lo affascina e lo coinvolge in un rapporto al limite dell’incestuoso ma puro, restituendogli alfine la voglia di vivere. E di amare.
Gérard Depardieu offre le sue grandi spalle incurvate dagli anni e dalla sofferenza, la sua figura appesantita, i suoi capelli untuosi e lunghissimi a questo operaio disgustoso e tenero al contempo, molto vicino iconograficamente ai personaggi della Cinico TV di Ciprì e Maresco. E non a caso si nominano i due cineasti siciliani, dato che Benoît Delépine e Gustave de Kervern sembrano essere il loro alter ego d’oltralpe. Registi che potremmo definire politically incorrect, già autori dell’irriverente Louise-Michel, Delépine e Kerven ci presentano un ironico e irriverente affresco di una società che sfrutta ed emargina i meno furbi, relegandoli infine ai margini della civiltà, facendosi beffe delle loro capacità e sfruttandoli fino a che è possibile. Come fossero suini destinati al macello da squartare, sezionare, salare, affumicare, stagionare e infine gustare.
Un film semplice nei mezzi, povero nelle scene, scevro di virtuosismi stilistici o verbali. Una sceneggiatura potente di silenzi e sguardi, una fotografia sfuocata e vintage. Omaggi alla cinematografia mondiale (il giardino di bambole sembra uscito da una pellicola di Gilliam), camei preziosi (la splendida Adjani), autocitazioni e partecipazioni alla Hitchcock (il salumiere con cui litiga Serge in una delle sequenze più esilaranti è proprio de Kervern), fanno di questa pellicola un piccolo capolavoro da gustare e riguastare che, per sottrarsi alla logica del consumismo, appare più saporito e possente dalla seconda visione in poi.
TITOLO ORIGINALE: Mammuth; REGIA: Gustave de Kervern, Benoît Delépine; SCENEGGIATURA: Gustave de Kervern, Benoît Delépine; FOTOGRAFIA: Hugues Poulain; MONTAGGIO: Stéphane Elmadjian; MUSICA: Gaëtan Roussel; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2010; DURATA: 90 min.
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