Solo un altro giro di valzer: Il Gattopardo PDF 
Andrea Mattacheo   

Chi parla il linguaggio della nazione, lo fa perché ha bisogno di un termine sintetico ed efficace che definisca le masse senza nome che sono chiamate a entrare in forma più o meno attiva nell’arena del politico (1).

I titoli di testa de Il Gattopardo scorrono sul cielo azzurro della Sicilia, un tempo dimora delle antiche divinità greche. Sotto di esso, nelle terre bruciate da un sole troppo vicino, stanno i principi di Salina, che come gli Dei hanno fatto del desiderio legge: “Vengono a insegnarci le buone creanze ma non ci riusciranno, perché noi siamo Dei […] i Siciliani non vorranno mai migliorare, per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria”. Visconti racconta un mondo giunto al tramonto, gli ultimi istanti di  leoni ormai stanchi che attendono pigri  l’arrivo dei lupi pronti a sbranarli per prenderne il posto. Si farà l’Italia e gli orgogliosi gattopardi dovranno sparire, farsi da parte perché il nuovo possa raggiungere anche quella terra che calma, placida e morente si lascia cullare dall’oblio, completamente estranea alla modernità e alle sue istanze.

Il Gattopardo è l’immagine sfarzosa e imponente della fine di un’era, dove  l’attenzione dedicata a spazi e oggetti dalla prosa elegante di Tomasi di Lampedusa trova l’ideale corrispondente cinematografico nella maniacalità della messa in scena di Luchino Visconti. È un’immagine che si regge sullo straordinario equilibrio tra quella tensione decadente, che diventerà poi l’elemento portante degli ultimi film di Visconti, e un forte impegno civile. Un perfetto esempio di quel “realismo critico” che, superato l’elemento cronachistico del grande cinema italiano degli anni Quaranta, alza lo sguardo e si fa carico di interpretare una Storia quanto mai complessa (2). Se è vero, infatti, che al centro della vicenda raccontata dal film c’è la decadenza dei principi di Salina, intorno a loro, e malgrado loro, c’è il nostro paese, che sta per nascere e forse non sarà che un triste aborto. La differenza tra Regno d’Italia e Regno di Napoli era questione di semantica o poco più; lo sapevano Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Luchino Visconti, così come lo sa Tancredi, brillante e scaltro quanto basta per continuare ad essere principe e al tempo stesso, nel futuro che verrà, diventare ambasciatore oppure ministro: “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”

Perché Il Gattopardo è anche e soprattutto il racconto di come ad un paese ferito da ingiustizie e soprusi, durati centinaia di anni, sia stata negata la possibilità di un reale cambiamento proprio nel momento che doveva sancire la sua “rinascita”. È il racconto del Risorgimento come rivoluzione passiva, tradita da uomini che escludendo il popolo e calpestandone le speranze hanno costruito la “nazione” su di un compromesso inconcludente e marcio: “Essi dicevano di proporsi la creazione dello stato moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo” (3). L’Italia che doveva essere del popolo è stata consegnata nelle mani degli scaltri e affascinanti  Tancredi e dei viscidi Sedara,  personaggi che hanno saputo fare dell’opportunità un’arte. Visconti parla del 1861 ma pensa  al 1945, agli anni in cui altri uomini si sono visti negare il diritto di cambiare realmente le cose. La resistenza, un’altra rivoluzione tradita in una Storia, quella d’Italia, dove ogni cosa sembra ripetersi ciclicamente senza scampo per chi, nella miseria della strada, è e sarà  destinato sempre a soffrire. Non è un caso che la sequenza del ballo, poche pagine nel romanzo di Tomasi, si dilati  fino ad assumere una dimensione eterea e immortale nella precisione calligrafica e nella fluidità della regia di Visconti. Un vortice voluttuoso eppure immobile; tutti si affannano e si muovono frenetici, chiusi però sempre nella stessa stanza. Girano su sé stessi come la nostra Storia, dal Risorgimento a tangentopoli passando per il 25 aprile: ogni volta solo un altro giro di valzer e poi ognuno può tornare al suo posto. 

Non restano allora che  le macerie siciliane, le macerie di un intero paese, tra le quali cammina piccolo e ormai mortale il principe di Salina, nei silenziosi e drammatici istanti conclusivi. Il suo sacrificio è servito perché nulla cambiasse. Una campana distante e cupa scandisce un tempo che al di là di lui è destinato a non passare mai. Non restano che  le parole di Calogero Sedara, le ultime del film, pronunciate dopo aver udito gli spari di un’esecuzione di ribelli: “È proprio ciò che ci voleva, per la Sicilia. Ora possiamo stare tranquilli”.

Note:
(1) A. B Banti, Sublime madre nostra, Laterza, 2011 p. 5
(2) Si veda G. Aristarco in  Cinema Nuovo, Milano, n. 52, 10 febbraio 1955
(3) A Gramsci, Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della Nazione e dello stato moderno in Italia, in  Q. X . Anche in A. Gramsci, Il risorgimento, Einaudi, 1949 p. 94

TITOLO ORIGINALE: Il Gattopardo; REGIA: Luchino Visconti; SCENEGGIATURA: Suso Cecchi d'Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli, Luchino Visconti; FOTOGRAFIA: Giuseppe Rotunno; MONTAGGIO: Mario Serandrei; MUSICA: Nino Rota; PRODUZIONE: Italia/Francia; ANNO: 1963; DURATA: 205 min.

 


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