Alla terza trasposizione cinematografica di opere di Oscar Wilde, dopo Un marito ideale e L'importanza di chiamarsi Ernest, da Oliver Parker ci si aspettava l’ennesima ispirazione wildiana, ma perfino gli spettatori che più avevano avuto modo di apprezzarlo devono aver temuto che la sua temeraria audacia lo spingesse a confrontarsi con l’opera che fu per Wilde croce e delizia. A metà tra un horror gotico e una pièce teatrale in costume, Dorian Gray infatti delude tanto i lettori dell’autore irlandese quanto gli spettatori del regista britannico. Parker tramuta una delle opere più affascinanti della letteratura europea in una trasposizione cinematografica che ne appiattisce gli aspetti più avvincenti e ne annacqua i toni e le atmosfere più autentiche e seducenti.
Ben Barnes (Le cronache di Narnia: Il principe Caspian) indossa la maschera del protagonista, qui più simile a un Due Facce fumettistico che all’emblema del dandy nato dalla penna di Wilde. Il suo volto troppo pulito quasi decontestualizza il mostruoso personaggio che dovrebbe incarnare e minimizza a pura estetica formale, quasi plastificata dietro il cerone e il portamento da foto-modello, le fattezze di un giovane profondamente combattuto tra il bene e il male, a cui finisce per abbandonarsi. Il suo mitico patto col diavolo è suggellato, quasi come in uno degli ultimi Raimi, da un ritratto deteriorato e agghindato da vermi, disgustosi e inadeguati per rappresentare la corruzione corrosiva del protagonista. Parker vira verso il fantasy horror, genere in cui da sempre gli autori inglesi dimostrano grande maestria, ma adotta un genere che rende trash un thriller dotato di enormi potenzialità per il grande schermo. Il suo Dorian Gray, contrariamente a quanto faceva presupporre la scelta del titolo, che con l’eliminazione de “Il ritratto” lasciava intendere a un protagonismo assoluto del personaggio e a una sua predominanza sul plot, è ben lontano da quello della fiction romanzesca e, ahinoi, molto più vicino a quello della finzione romanzata: inutili gli affondi languidi e insistiti nella (omo)sessualità, che calcano la mano su un tema più legato allo scrittore che al suo “attore”, e perfino i rimandi religiosi, come la confessione in chiesa, completamente inadatti alla personalità di un giovane che vi era totalmente disinteressato. Il Dorian diabolico e inquietante ha cambiato pelle e sembra un vampiro dark fastidiosamente vicino all’ultimo trend cinematografico-giovanilistico: un essere dalla natura disumana e dall’appeal sensuale e liberty capace di provare sentimenti ed esibire sentimentalismi (abominevole tradimento wildiano!). Perfetto invece nella mise faustiana di Lord Henry Wotton un bravissimo Colin Firth, che sovraccarica la sua performance con tempra e sagacia e sfodera con garbata nonchalance e somma abilità la sua verve british, specie quando sfoggia la nota serie di aforismi che fanno del suo personaggio quel cinico edonista difficile da dimenticare. Il rigido e impettito Firth riesce, al contrario dell’acerbo Barnes, a tener testa agli oscuri baratri del libro e a ridimensionare il dramma storico con la sua interpretazione snob e flemmatica.
Se al romanzo Parker sottrae le atmosfere cupe, la profondità della sconcertante perdizione e dell’inarrestabile e tormentata dannazione, riducendole a poche sequenze dalle pittoresche suggestioni pulp e dagli sfrigolii splatter, resta a bilanciare il sofisticato background vittoriano, con una perfetta cornice d'ambientazione e costumi d'epoca ineccepibili: le scenografie, degli interni lussuosi e degli esterni unti e bisunti, sono vivide e riescono a donare una certa lucentezza al film, mentre la fotografia, intensa e dal grande potere evocativo, risucchia lo spettatore nell’oscurità proprio come la scena lagunare che ingoia la povera Sybil Vane.
TITOLO ORIGINALE: Dorian Gray; REGIA: Oliver Parker; SCENEGGIATURA: Toby Finlay; FOTOGRAFIA: Roger Pratt; MONTAGGIO: Guy Bensley; MUSICA: Charlie Mole; PRODUZIONE: Gran Bretagna; ANNO: 2009; DURATA: 112 min.
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