“Mi è stato chiesto un augurio, anche solo un consiglio. Lo dò: è di stare svegli, non abbandonarsi ai sogni. Quando scegli non devi sognare, tu sei responsabile”. (Vittorio Foa). Lezioni di felicità dello scrittore e drammaturgo francese Eric-Emmanuel Schmitt è un film offensivo. Offensivo nei riguardi del pubblico e dei personaggi che mette in scena. La protagonista, Odette Toulemonde, attraversa con soavità le bruttezze della quotidianità e cerca di godere delle piccole gioie che ogni giorno può riservare, ma la bontà che la contraddistingue scade nel buonismo e sfiora la stupidità. Odette, commessa del reparto cosmesi di un anonimo e grigio grande magazzino, nei confronti della vita ha un atteggiamento arrendevole, remissivo, è disposta ad accettare e tollerare il tradimento di amiche e familiari, a sopportare l’ostilità della figlia e gli stravaganti amanti del figlio che quotidianamente le invadono casa, ad accontentarsi senza mai pretendere. A permetterle di sopravvivere sono i romanzi d’intrattenimento di Balthasar Balsan, che le impediscono di riconoscere le miserie che la circondano e che riescono a farle apparire la vita come se fosse una favola Disney, con tanto di siparietti musicali durante i quali la protagonista si lascia trasportare dal ritmo. Ma Odette, invece di ricordare Joséphine Baker, ripetutamente evocata nel film, somiglia più a Nanni Moretti in Caro diario che fa il verso a Silvana Mangano in Anna. Nonostante l’importanza che i libri rivestono per Odette, il film visivamente non riesce a restituire il potere affabulatorio della scrittura o la forza salvifica della lettura, e il regista per comunicarci questi concetti deve esprimerli per bocca della protagonista, oppure ricorrere a collaudati effetti speciali di bassa lega che fanno levitare l’eroina ogni volta che impugna un libro dell’unico autore a cui dedica le sue attenzioni di lettrice, e pur così facendo non è in grado di caricarli della giusta enfasi. Sotto la patina della leggerezza e della soavità, il film nasconde un atteggiamento retorico e populista, caratteristiche che emergono dal ritratto che si fa della massa, della maggioranza silenziosa di cui Odette è la rappresentante ideale, vista come esempio di genuinità, di candore, di sani principi, e dalla violenta e sprezzante caricatura che viene fatta della cultura alta tramite il ripugnante e bieco critico letterario che stronca senza mezzi termini i lavori di Balsan. Il film diventa così uno sfacciato elogio all’intrattenimento di scarsa qualità, dozzinale, di pura evasione, che fa capire come per il regista i concetti di “semplice” e “mediocre” siano due sinonimi perfettamente interscambiabili. Dal lavoro di Schmitt si evince che la gente umile come Odette vuole solo svagarsi, abbandonarsi al sogno e al disimpegno, ormai adeguata e rassegnata alle proprie debolezze e ai propri limiti, legata a riti scontati e stereotipati. Stilisticamente il film è confuso, incerto nel registro d’adottare da risultare involontariamente ridicolo. Se a prevalere sono i toni da commedia romantica che sconfina nel fiabesco, con sequenze surreali di voluta fattura artigianale, com’è suggerito sin dalla prima sequenza dove la protagonista ci appare come una moderna fata che fa capolino dal suo scrigno incantato, non mancano però soluzioni più serie e realistiche, quando ad esempio si assiste alle vicende di stampo grottesco di Balthasar Balsan, a cui il regista ricorre nel deformare caricaturalmente i personaggi che gravitano attorno alla vita domestica di Odette, un bestiario di eccentrici emarginati. Ciò che si avverte, tuttavia, è una fastidiosa e continua sensazione di “già visto”. TITOLO ORIGINALE: Odette Toulemonde; REGIA: Eric-Emmanuel Schmitt; SCENEGGIATURA: Eric-Emmanuel Schmitt; FOTOGRAFIA: Carlo Varini; MONTAGGIO: Philippe Bourgueil; MUSICA: Nicola Piovani; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2006; DURATA: 100 min.
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