Dopo Voltaire, Marivaux. Così Abdellatif Kechiche abbatte i confini dello spazio-tempo e costruisce un ponte tra passato e presente. L’esquive è soprattutto questo: un poema didascalico in salsa banlieue, l’Ulisse joyciano nell’era degli eterni adolescenti. Krimo (Osman Elkharraz) somiglia molto a quel Leopold Bloom che abbiamo visto perdersi tra le strade di Dublino, in una serie di (s)fortunati eventi. Al contrario del suo alter ego irlandese però, il protagonista dell’intreccio, schiva l’altrui flusso di coscienza, per eclissarsi in un circuito di elisioni che renderanno il suo silenzio un’arma a doppio taglio. Siamo nel quartiere di Saint-Denis, mai nominato, ma facilmente identificabile dagli HLM che circoscrivono la scena e su cui rimbalzano milioni di parole al secondo: è il linguaggio della racaille, dei giovani esclusi, un rap esplosivo di sonorità d’oltralpe, cadenzato da un accento che tradisce origini ben più lontane. Il tempo è scandito da furti, incarcerazioni ed episodi di sottile violenza, mentre la vita continua, nel suo grigiore, a regalare attimi d’eccentrica normalità: un vestito da comprare, uno spettacolo da allestire, una ragazza da conquistare.
Tutta colpa del teatro. Il gioco dell’amore e del caso smette infatti di essere solo una recita di fine anno e diventa il fil rouge che muove le marionette sul palco di Kechiche: Lydia (Sara Forestier) è Lisetta, la nobile che si finge serva nella commedia di Marivaux e che fa innamorare perdutamente di sé Arlecchino, inizialmente incarnato da Rachid (Rachid Hami) e poi, ovviamente, da Krimo, che riesce a comprare il ruolo all’amico in cambio di un paio di scarpe, di una tuta da ginnastica e di un po’ di caviale. Ma Krimo non sa recitare, così come non sa palesare il suo amore: le battute di Arlecchino gli riempiono la bocca, ma appaiono piatte e mute quando pronunciate dalla sua voce. Il suo approccio è inconcludente e confusionale, genera equivoci, provoca tumulti. Estraniato dal suo contesto naturale, Krimo perde se stesso, schiva la folla, il confronto, infine si arrende. Eppure, sul finale, si concede un unico lusso: quello di non dire niente, di sottrarsi, ancora una volta, alla vita che lo chiama dalla finestra.
L’esquive non riuscì nel 2004 a detronizzare Los Muertos di Lisandro Alonso, ma un anno dopo incassò il premio César nelle tre categorie più importanti (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura). Anche Sara Forestier si aggiudicò il titolo di miglior rivelazione femminile, e a gran ragione: lei e il suo abito settecentesco, bucano lo schermo, stordendo lo spettatore in un contrasto di battute e gestualità. Da un lato la rabbiosa volgarità dello slang di periferia, dall’altra i vezzi del palcoscenico, in un meticciato culturale e temporale, oltre gli angusti confini di quartiere. Abdellatif Kechiche non lascia respirare i suoi giovani attori, li segue ovunque con le sue inquadrature in primissimo piano, li sfianca con una sfilza di dialoghi a mitraglia, li finisce sul climax, quando l’irruenza della polizia squarcia l’atmosfera illusoria del teatro, per riportare tutti con i piedi per terra. Una produzione semplice, dall’interpretazione non facile: scadere nel “già visto” era un rischio altissimo, schivato anch’esso grazie alla destrezza degli interpreti e alla profondità degli intenti dietro la macchina da presa. Da qui, al Leone d’Argento, il salto è stato breve: giusto il tempo di un cous cous.
Titolo originale: L'esquive; Regia: Abdellatif Kechiche; Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix; Fotografia: Lubomir Bakchev; Montaggio: Antonella Benveja, Ghalia Lacroix; Scenografia: Michel Gionti; Costumi: Maria Beloso-Hall; Produzione: Lola Films, Noé Productions, CinéCinéma; Distribuzione: Mikado Film; Durata: 117 min.; Origine: Francia, 2003.
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