Il discorso del re PDF 
Marco Doddis   

Quanto è attuale questo film, quanto è bello questo film! Dio salvi il re, Dio salvi Mister Tom Hooper! È davvero difficile smorzare gli entusiasmi dopo aver visto Il discorso del re. Meglio: dopo aver ascoltato, compreso e applaudito Il discorso del re. Certo, la versione doppiata non è all’altezza di quella originale; tuttavia, il valore del film non ne esce minimamente intaccato, checché ne dicano certi tromboni puristi, forse immemori di che cosa sia quella settima arte di cui spesso dissertano. Memorandum: il cinema è soprattutto arte figurativa, è “una prigione per gli occhi” (Franz Kafka dixit).

La storia di Bertie, al secolo Duca di York e poi Giorgio VI, non può non coinvolgere e appassionare. Innanzitutto perché c’è da compiere una missione: il protagonista deve raggiungere il proprio oggetto di valore, che non è una corona o un pezzo di terra, ma, fatto piuttosto insolito per un sovrano, la padronanza sulla propria voce. In secondo luogo perché tratteggia con equilibrio e delicatezza una vicenda umana che può riguardare chiunque: si parla di un’amicizia sincera, di amore devoto, di educazione tormentata, di turbe, complessi e fobie. Insomma, pane quotidiano. Albert non riesce proprio a parlare in pubblico. È più forte di lui: la sua balbuzie, già evidente tra le stuccate mura di famiglia, si trasforma in panico puro davanti ai sudditi. Piccola consolazione: il trono non spetta a lui, ma al fratello (peccato che Edoardo VIII regnerà meno di un anno, per poi fuggire tra le braccia di un’americana divorziata. Abdicazione d’obbligo: che tempi!). Dopo le inutili cure dei medici di corte, la moglie, a noi nota come Regina Madre, lo trascina a forza da un logopedista. È un australiano, attore fallito, che tira a campare aiutando chi ha problemi di parlantina. Dopo le prime diffidenze (il terapeuta non ne vuole proprio sapere di trattare il suo illustre paziente con la canonica riverenza), Albert inizia a fare progressi. La sua vita cambia: anche la prospettiva di diventare re e di difendere la nazione dal lupo nazista non lo paralizzerà più.

Simmetrie. L’impeccabilità formale della pellicola di Hooper emerge sin dal livello più superficiale del “testo”, la struttura narrativa. Il film si apre con un discorso, quello del 1925 allo stadio di Wembley, e si chiude con un discorso, quello del 1939, rivolto a tutto l’Impero in occasione dell’inizio della guerra. C’è una geometria calcolata che permette ai personaggi di arrivare allo scioglimento, alla risoluzione delle loro peripezie. Il protagonista, Giorgio VI, vince le proprie paure grazie all’aiutante, il logopedista-psicologo Lionel Logue. Quest’ultimo vede ricompensata una vita di stenti (diventa anche Cavaliere dell’Ordine Reale Vittoriano) grazie al suo aiutante, il re Giorgio. I due, dunque, costruiscono un perfetto rapporto simbiotico. Intorno ad esso, Hooper e il suo bravo sceneggiatore, David Seidler, imbastiscono una serie di sottotrame che si amalgamano a meraviglia con quella principale (la questione della successione, il rapporto del re con la famiglia, il momento particolare vissuto dall’intera nazione). Nulla è lasciato al caso, fatto imprescindibile per un film che, non scordiamolo, è prima di tutto una ricostruzione storica. Dove gli autori fanno centro è nell’attenta gestione del ritmo narrativo. Seidler non è mai banale: se mette in scena un lungo dialogo, subito dopo inserisce una scena d’“azione”; se nota un accentuarsi dell’elemento patetico, piazza prontamente un contrappunto comico (tra l’altro, la sequenza dell’“allenamento”, con Logue che sottopone Sua Maestà ad improbabili esercizi fisici e vocali, ben poco protocollari, è forse la più deliziosa in assoluto). Il risultato è un gioiello di cinema all’antica, quello in cui la forma era la sostanza. Naturalmente, risulta determinante il contributo dei tecnici. In particolare: Eve Stewart, scenografa attenta nel costruire gli ambienti della Londra post-Vittoriana e pre-bellica; Alexander Desplat, musicista fine, pronto a ricorrere all’occorrenza a Mozart e Beethoven; Danny Cohen, fotografo di tinte grigie che man mano si illuminano, come l’anima del protagonista. Le prestazioni degli attori completano l’opera. Difficile trovare un volto fuori posto in un cast stellare come quello messo insieme da Hooper. Diciamo solo che Colin Firth, il re, e Geoffrey Rush, il “dottore”, sono monumentali.  

A livello sottotestuale, poi, non sfugge certo il discorso sulla leadership. È noto come i capi dei totalitarismi novecenteschi abbiano inaugurato un nuovo approccio al potere, fatto più di apparenza che di realtà. Nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali, furono in tanti a prendere appunti da Hitler, Mussolini o Stalin: il loro rapporto con le masse era veicolato da quei media che ben presto tutti dovettero prendere in considerazione. Non è forse il caso di Giorgio VI e della sua Inghilterra? Lo sguardo del re che assiste a filmati di propaganda nazista in compagnia della famiglia non gronda forse di ammirazione? Quella scena, essenziale a tal proposito, evidenzia non solo l’invidia di un non-comunicatore (il balbuziente sovrano) verso un gran comunicatore (Herr Hitler), ma mostra il solco tra la vecchia e la nuova politica. L’ingessata monarchia britannica dovette adeguarsi ai tempi e inaugurare una stagione di rapporti con il popolo fatta soprattutto di radio e televisione. Quell’universo così aristocratico, pregno di Mark Twain e soprattutto di Shakespeare (quante citazioni!), fu costretto a prendere lezioni dai nuovi potenti, rozzi, super virili, sfacciatamente ineducati e incolti. Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti, ma il modello imposto dai dittatori funziona ancora alla grande. Ecco, dunque, la lampante attualità dell’opera.

Ha vinto e vincerà ancora tanti premi, The King’s Speech. Il più importante glielo consegnerà il tempo, che dirà la sua sulla godibilità del film anche negli anni a venire. Di sicuro, ha già emesso il suo primo verdetto: il cinema inglese ha trovato un signor regista, scippandolo alla televisione. Al suo terzo lungometraggio, Hooper ha fatto centro e, soprattutto, ha mostrato uno stile proprio. I suoi insistiti grandangoli, così come i primi piani fortemente scentrati, sembrano voler assurgere a marchi di fabbrica. Se così fosse, God save Mr. Hooper!

TITOLO ORIGINALE: The King's Speech; REGIA: Tom Hooper; SCENEGGIATURA: David Seidler; FOTOGRAFIA: Danny Cohen; MONTAGGIO: Tariq Anwar; MUSICA: Alexandre Desplat; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Australia; ANNO: 2010; DURATA: 118 min.

 


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