Gomorra è un film di soggetti. Soggetti che si aggirano in un labirinto senza riuscire a trovarne l’uscita. Lo sguardo del regista li segue quasi volesse aiutarli. Ma nemmeno lui può fare niente... Più siamo immersi nella visione, più ci rendiamo conto che quello sguardo è anche il nostro: uno sguardo che cambia angolazione, punto di vista, spazio e tempo, ma che si ritrova sempre a guardare le stesse situazioni. Come in un incubo da cui non ci si riesce a svegliare, i soggetti del film non riescono a sfuggire al male, alla criminalità, alla corruzione... o forse, ormai, non ci tentano più perchè hanno capito che scappare dal labirinto di Gomorra è impossibile. Garrone riesce a dominare con grande efficacia la materia audiovisiva, regalandoci una lezione registica che porta certamente Gomorra sul podio italiano del nuovo millennio. Sono le soggettive (false o vere che siano) le modalità linguistiche con le quali Garrone ci porta al centro di questo labirinto inestricabile. Ma il regista romano non si ferma a queste. Gomorra è girato con piani-sequenza da brividi (in ogni senso), in cui spesso partendo dalla luce della (in)certezza si va a finire nelle tenebre dell’orrore. Una coralità altmaniana di figure perdute viene rappresentata con un rigore visivo simil-dardenniano. La macchina non lascia mai soli i soggetti, li sostituisce con altri per poi tornare dai precedenti, ma le situazioni non sono cambiate. Le composizioni delle inquadrature non sono mai aperte, anzi sembrano racchiudere uno spazio che si fa sempre più claustrofobico: una piscina sulla terrazza del soggetto-palazzo, una sposa costretta a farsi seguire dal corteo in un corridoio strettissimo. L’esterno non resta più fuori campo, diventa uno spazio addirittura extra-diegetico, poichè inesistente per i soggetti della narrazione. Rimane solo lo sguardo ad isolarsi dall’ambiente. Uno sguardo plongée che segue un uomo “neutrale” costretto a camminare fra cadaveri abbandonati, o uno sguardo contre-plongée che mostra come sia troppo alto il muro da scalare per poter uscire dal labirinto. Non vi è quasi mai musica da buca in Gomorra. La colonna sonora è composta da grida, spari e da canzoni ascoltate dai soggetti. I suoni che sentiamo fuori campo creano delle immagini agghiaccianti tanto quanto quelle che abbiamo davanti agli occhi. In questo senso magistrale è la sequenza in cui alcuni ragazzi ballano sulla musica di una celebre canzone commerciale. Sembra per qualche secondo di essere tornati alla “realtà”: un ragazzo invita a ballare con lui una ragazza, che annoiata lo rifiuta. Purtroppo non è così, non siamo ancora fuori. Dopo alcuni secondi, si sentono degli spari e vediamo a terra un ragazzo morto. Gli spari si vanno a sovrapporre alla canzone, che orgogliosa non smette di suonare nonostante il tragico avvenimento. Quella musica, che ci dava qualche attimo di allegria e speranza, ha reso questa sequenza ancor più agghiacciante e terribile. Forse l’ultima speranza per evadere dal labirinto Gomorra arriva da Marco e Ciro. I due decidono di lavorare da soli, di fare la “Guerra” agli altri. Potrebbe essere questo un modo di fuggire dal sistema? Staccarsene facendo di testa propria? Purtroppo no, non c’è via di uscita. Marco e Ciro escono dal labirinto, ma nel modo sbagliato: morendo. Ora non valgono neanche quanto quei rifiuti tossici, dai quali il personaggio interpretato da uno straordinario Toni Servillo guadagna, e fa guadagnare, molto denaro. Si accendono le luci. Ora finalmente, almeno noi, siamo usciti dal labirinto Gomorra. Oppure no?
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