Quattro donne intrecciano le loro vite nella Torino degli anni '50.
Una, arrivata da Roma per aprire la filiale di una casa di moda, ne incontra per caso un'altra, che tenta di uccidersi nella stanza d'albergo di fianco la sua. Due amiche della suicida sopraggiungono per avere informazioni sull'accaduto e non è chiaro se a muoverle sia apprensione o curiosità femminile. Nel frattempo il tentato suicidio diventa occasione mondana, spunto per inventare una bizzarra familiarità con la nuova arrivata ed instaurare un'improbabile confidenza.
Il paradosso è, dall'inizio, codice di comunicazione portante. Le quattro annaspano con algida indifferenza in una vischiosa apatia. Per risollevare il morale dell'amica è organizzata una gita al mare e proprio in quell'occasione i rapporti umani si rivelano come il risibile accavallarsi di situazioni di incoerenza: tutti sono amici, ma in realtà non si conoscono, il corteggiamento è consuetudine, il/la corteggiata un oggetto intercambiabile, le parole formule di frasi fatte, variamente combinate, e tutto procede veloce, a tal punto da sembrare irreale: si arriva, si ride, si piange, ci si bacia, si parla, si parte. Finito. Stacco. Nuova sequenza: altro giro, altra corsa!
La comunicazione è una sorta di gioco di società in cui il melodramma diventa cifra ed iperbole dell'autoreferenzialità. La "scelta" è una sorta di latenza, l'abbandonarsi allo strano flusso delle occasioni interposte.
Tutto sommato la storia ha scarso spessore, ma la narrazione la rende decisamente interessante: non si racconta un fatto, ma cosa avviene in mezzo, cosa accade negli intervalli tra azioni tutto sommato insignificanti. Insignificante è incontrare l'amore (la romana s'invaghisce di un capo-cantiere, ma sembra osservare al microscopio l'applicazione di un codice amoroso libresco solo per vedere cosa succede. Così, quando ci si dice "Addio", il tono è quello dell'annuncio radiofonico), insignificante un tradimento e l'incombente fine di un matrimonio (la scultrice che sa di essere tradita dal marito si atteggia a citazione di una Medea infiacchita e, tutto sommato, coglie l'occasione per sperimentare su di sé il dolore come posa plastica), l'amicizia (la femme fatale della compagnia fa delle amiche il suo pubblico, di fronte al quale si pavoneggia con fare da donna matura e mise da diva hollywoodiana), la gioventù (la ragazzina del gruppo civetta senza rimedio), la vita stessa.
Il suicidio annunciato fin dall'inizio non stupisce, non sorprende, non c'è nemmeno occasione di empatizzare con Rosetta: personaggio dall'eloquio monotono e salmodiante.
Così questi personaggi, costruiti come tipi piuttosto che persone, vivono con meccanica indifferenza le loro tragedie "ridicole". Ciò che rimane è il vuoto. L'amara caricatura dell'assenza.
Magistrale è il continuo controcanto dei personaggi minori, comparse che passano d'improvviso sullo schermo, per un attimo, in un angolo del fotogramma, facendo il verso ai protagonisti ed ammiccando allo spettatore con fare complice.
Tutto sommato nel regno dell'indifferenza è proprio l'occasione interposta a portare avanti gli eventi...
Il film è stato visto all'interno della retrospettiva Cinema Italiano Millenovecentocinquantacinque del Museo Nazionale del Cinema, 24-31 ottobre 2002.
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