Robin Hood PDF 
Marco Doddis   

Diciamolo subito: dell’ennesima pellicola sulle imprese di Robin Hood, proprio nessuno avvertiva la necessità. Le vicende dell’eroe in calzamaglia costituiscono infatti una sorta di  infinito, e pleonastico, filo rosso nella storia del cinema americano. Non pare una forzatura, anzi, affermare che Hollywood sia nata e cresciuta all’insegna delle sue gesta. La madre di tutte le versioni risale addirittura al 1912: fu Robert Frazer a prestare per primo il volto all’arciere di Sherwood, inaugurando una galleria da brividi, una vera hall of fame comprendente, tra gli altri, Douglas Fairbanks, Errol Flynn, Sean Connery e Kevin Costner, senza dimenticare, ovviamente, la simpatica volpe di Walt Disney. L’eterno ritorno, direbbe qualcuno. Ed è proprio così: a distanza di quasi un secolo da quel film, si palesa una volta ancora sugli schermi l’immagine di colui che rubava ai ricchi per donare ai poveri. E, siamo pronti a scommetterlo, non si tratterà del capitolo finale: secondo alcune indiscrezioni, Ridley Scott, l’autore dell’ultimo film, starebbe già pensando di concederci il bis. La motivazione? A suo parere, quello di Robin Hood è un genere non ancora pienamente esplorato. Che stia attento, Sir Scott: le bugie potrebbero costargli il titolo di baronetto.

Dando per scontato che il vecchio volpone conosca a meraviglia le varie declinazioni del filone “cappa e spada” (anche se nella sua ultima fatica pare dimenticarlo) e sappia quanto trita e ritrita sia la figura dell’arciere gentiluomo, il quesito nasce spontaneo: ma è possibile che una mente come quella di Ridley Scott e una penna come quella di Brian Helgeland (quello di L.A. Confidential e di Mystic River) non siano riusciti a partorire niente di meglio che un altro Robin Hood? Certamente, gli autori non hanno evitato la questione, focalizzando la loro attenzione sull’opportunità di riproporre alle platee un personaggio arcinoto. Un personaggio che, come molti altri nella storia del cinema, sembra sopravvivere all’incedere del tempo, nonostante la ripetitività delle sue avventure. Per la serie: con Robin Hood si va sul sicuro. Tuttavia, Scott ed Helgeland devono essere stati sfiorati dal dubbio: e se il pubblico ne avesse abbastanza? Dopo tutto, non esiste una sola generazione di spettatori che sia a digiuno in materia: il rischio di un flop non era poi così remoto, specie in un’epoca nella quale pure un biglietto del cinema può essere di peso per le tasche del cittadino globale. Per mettersi al riparo da ogni sorpresa è stata adottata una duplice strategia. Da un lato, quello commerciale, si è agito mettendo insieme un cast di tutto rispetto, schierato alle spalle della coppia d’oro Crowe-Blanchett, e nobilitando la promozione del film con l’ineguagliabile biglietto da visita della Montée de Marche (il film, fuori concorso, ha aperto Cannes 2010); dall’altro, quello narrativo, si è scelta la via del prequel: se tutti, cioè, conoscono a memoria i fatti della foresta di Sherwood, perché non raccontarne il prologo? Senza dubbio l’idea di base era valida. Nel corso delle due ore e mezza di proiezione, Robin Hood non è ancora Robin Hood. Si chiama Longstride ed è solo uno dei tanti arcieri al servizio di Re Riccardo I. Vediamo l’origine di tutto, il mito in nuce, ciò che poi sarebbe diventato nelle pellicole e nell’immaginario. Insomma, le premesse erano straordinarie. Si poteva pensare di essere al cospetto di un gigante (Ridley Scott) issatosi sulle spalle di altri giganti (la nobile tradizione cinematografica sull’eroe in calzamaglia). Una scelta di comodo, sicuramente un po’ pigra, ma dagli esiti prevedibilmente sontuosi.

E invece? Invece il risultato finale non convince né avvince. La montagna ha partorito un topolino dallo squittio balbuziente e supponente. Certo, Ridley Scott è abile come pochi nel confezionare giganteschi giocattoli audiovisivi. E anche questa volta, dal punto di vista squisitamente tecnico (movimenti di macchina, luci, fotografia), si trova assai poco da appuntare. È sul piano narrativo che la nave imbarca acqua da ogni parte. Il fallimento (non davanti al pubblico, a quanto pare: gli incassi, soprattutto nel Vecchio Continente, sono stati più che buoni) dell’impresa è dovuto a una forzatura estrema nella caratterizzazione del protagonista e del suo ambiente. Ricordando un binomio caro a John Ford, Scott non solo viola la Storia (non è certo la prima volta), ma fa lo stesso con la Leggenda: e se la prima può essere piegata e stiracchiata in base alle esigenze di copione, la seconda non può venire così facilmente ignorata, pestando i piedi a quei giganti su cui ci si vuole innalzare. Insomma, si può anche accettare di veder morire Riccardo Cuor di Leone senza aver fatto ritorno in Inghilterra dalle Crociate, o (ma questa è davvero grossa) di far discendere la concessione della Magna Charta dalle rivendicazioni di Robin Hood. Ma proprio non si può tollerare lo stravolgimento dei tratti peculiari del protagonista, quei tratti scolpiti e levigati da un secolo di tradizione filmica. A maggior ragione, se, di quella tradizione, si ha l’ardita pretesa di illustrarne le fondamenta.

Ma dov’è finito quel nobiluomo, di origini e di spirito, che si metteva dalla parte dei più deboli e, con le sue frecce, faceva tremare Sceriffo di Nottingham e soci? Il Robin di Crowe, lontano dai fasti de Il Gladiatore ma comunque autore di un'interpretazione dignitosa, è rozzo, poco galante, addirittura insubordinato a Re Riccardo. Non solo: con la scusa di mantenere la promessa fatta al morente Sir Loxley (riportare la spada al padre Walter, un crepuscolare Max Von Sydow), Robin ne assume l’identità, con tutti i benefici che ciò comporta (giacere con Marian/Blanchett è uno di questi). Della sua abilità con l’arco si hanno scarse prove: gli unici strali significativi sono quello, assolutamente improbabile, che pone fine alla battaglia con gli invasori, e quello, più verace, stampato nell’ultima scena quasi in faccia allo Sceriffo di Nottingham. Anche quest’ultimo personaggio, tra l’altro, non conserva nulla dei suoi illustri predecessori, venendo rappresentato come un qualunque debosciato di campagna.

Ciò che irrita maggiormente in questo Robin un po’ sindacalista e un po’ capopopolo è il suo essere la fotocopia in calzamaglia del Generale Massimo Decimo Meridio. C’è dunque pure un pizzico di presunzione nelle scelte di Ridley Scott: oltre a non rispettare i citati giganti, egli casca a pie’ pari nella tentazione autoencomiastica. Robin Hood diventa così lo specchio del cinema epico del suo regista: Le Crociate, ma, soprattutto, Il Gladiatore. Non solo l’uomo, ma anche l’ambiente e la vicenda sono modellati spudoratamente sulle imprese di colui che faceva scatenare l’inferno: la battaglia iniziale in quel di Francia ricalca quella che apriva Il Gladiatore; la fotografia di John Mathieson presenta le medesime tinte grigio metalizzate (soprattutto nelle scene che fanno riferimento al passato di Robin); addirittura la musica di Marc Streitenfeld rimanda in maniera imbarazzante ai celeberrimi temi dell’altro lavoro di Scott. Non contento, l’autore infarcisce il tutto con quegli ingredienti utili per non farsi mancare nulla sul piano della resa spettacolare. Una spalmata di Salvate il Soldato Ryan (si veda la scena dello sbarco sulle coste inglesi), un pizzico di Troy, qualche spruzzata di Braveheart è il piatto è servito. Ed è un piatto che, per la gioia di qualche spettatore, non rischia affatto di raffreddarsi. Sì, perché questo Robin Hood, ed ecco la sua pecca più grande, manca di calore, di capacità emozionale: è una minestrina nemmeno riscaldata.        

TITOLO ORIGINALE: Robin Hood; REGIA: Ridley Scott; SCENEGGIATURA: Brian Helgeland; FOTOGRAFIA: John Mathieson; MONTAGGIO: Pietro Scalia; MUSICA: Marc Streitenfeld; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 138 min.

 


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