L'arte di vincere PDF 
Marco Doddis   

Ancora una volta, nella sterminata produzione di film di argomento sportivo made in USA, ci si trova di fronte a un’azzeccata ricostruzione storica e, allo stesso tempo, a un’indagine su certe “inspiegabili” dinamiche della vita. Moneyball, L’arte di vincere, riesce infatti a coniugare mirabilmente questi due aspetti. La mano di Bennett Miller (Truman Capote) ci conduce con sapienza nella vita di Billy Beane, general manager degli Oakland Athletics, una squadra di baseball della Major League. Siamo all’inizio del secolo e gli Athletics hanno appena concluso un’ottima stagione, perdendo il match decisivo dei playoff contro i New York Yankees. L’annata seguente, il 2002, inizia però sotto cattivi auspici: incapace di competere con i budget milionari delle big, la squadra californiana si vede scippare i suoi tre migliori giocatori. Beane, costretto a rimboccarsi le maniche per reperire dei degni sostituti sul mercato, deve fronteggiare un bilancio in rosso e i disaccordi all’interno del board e del gruppo degli osservatori. L’incontro con Peter Brand, giovane laureato in economia, rappresenta il momento della svolta. Beane assume Brand come assistente, adottando il suo rivoluzionario approccio nello studio delle prestazioni dei giocatori: matematica, statistica, cascate di numeri, che, incrociati tra loro, hanno la pretesa di fornire una misurazione oggettiva e incontestabile del rendimento di un lanciatore o di un battitore (si tratta della cosiddetta sabermetrica, termine derivato dall’acronimo SABR, Society  for American Baseball Research). Nonostante un inizio di stagione disastroso, alla lunga il metodo di Brand funziona. A dispetto dell’opinione pubblica e dell’allenatore stesso, gli Oakland infilano una impressionante serie di venti vittorie consecutive (un record senza precedenti nel baseball statunitense), cadendo però di nuovo a un gradino dalla gloria.

Ispirato alla vera storia degli Athletics e al libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis, il film di Miller è stato accolto da una critica unanimemente favorevole ed è stato premiato da ben sette nomination (tra cui quella per il miglior film) per i prossimi Oscar. In effetti, nella pellicola c’è poco che non funzioni. Al di là del fatto che il canovaccio sportivo faccia facilmente e convenzionalmente colpo, soprattutto se costruito su una vicenda reale, la pellicola funziona in ragione di una perfetta armonia di tutti i suoi ingranaggi. La ruota maestra è sicuramente la sceneggiatura della “meravigliosa” coppia Steve Zaillian/Aaron Sorkin: coinvolgente, perfettamente calibrato nel ritmo (a proposito di ritmo, la scena delle trattative di “baseball-mercato” al telefono è da antologia) e nei toni, lo script messo in mano a Miller lo fa partire con almeno dieci punti di vantaggio. Lui, dal canto suo, non si limita alla pedissequa esecuzione, ma guida lo sguardo dello spettatore in un gioco prospettico che lo costringe a guardare fuori e dentro di sé. Lo assecondano la musica e, soprattutto, la fotografia di Wally Pfister, abile a confondere volutamente le tinte televisive del baseball sul piccolo schermo con quelle cinematografiche. Capitolo cast. Anche qui la squadra funziona, perché è un giusto mix di gregari e campioni. Tra i primi, oltre a Robin Wright (Sharon, la ex moglie di Billy) e al simpatico Spike Jonze (Alan, il compagno di Sharon), spicca quel Jonah Hill (Brand), che tante volte abbiamo visto di sfuggita, ma che qui possiamo per la prima volta ammirare. Tra i secondi, c’è Philip Seymour Hoffman (il coach Art Howe), sempre efficace ma relegato in secondo piano per esigenze di copione, e il fuoriclasse che guida il team, Brad Pitt. Attenzione, perché all’Oscar corre anche lui e, questa volta, potrebbe proprio farcela. Pitt incanta perché il suo personaggio non è certo dei più semplici da interpretare: è razionale, ma allo steso tempo scaramantico (non assiste alle partite della sua squadra; quando, alla fine, decide di recarsi allo stadio, i suoi dilapidano un vantaggio di undici punti, rischiando di perdere una match già vinto) e paranoico (assaggia tutto quello che gli capita a tiro); è un duro, ma, dopo averlo visto nella dimensione privata, pare più che faccia il duro. Soprattutto, è lui l’“oggetto” in cui si incarna il senso più profondo della storia. Billy è un ex giocatore ferito da un’esperienza promettente ma fallimentare nel mondo del baseball; da manager, prova a riprendersi ciò che non è riuscito ad avere in gioventù: il brivido della vittoria. Ma non è mica facile. I suoi metodi sono rudi, accentratori, affatto ortodossi. Soprattutto, si trova ad operare in una dimensione che definiremmo provinciale. Ecco spiegato il fascino, per certi versi scontato ma sicuramente eterno, del riscatto dei piccoli nei confronti dei grandi, della possibilità che Davide batta Golia, anche se non dispone dei suoi mezzi e dei suoi denari. Solo lo sport può raccontare di queste favole e, questo, il cinema lo sa bene.

Tuttavia, mano a mano che la narrazione di Moneyball procede, ci rendiamo conto che Miller non va a parare nel “miracoloso” happy ending hollywoodiano. Gli Athletics non vincono le World Series e, sotto la gestione Beane, forse non le vinceranno mai. I successi della squadra sono sostanzialmente delle vittorie di Pirro. Da qui, nasce il motivo della cronica insoddisfazione del manager, che pare infischiarsene del record di venti vittorie consecutive. Il regista, però, suggerisce che il perdente Beane non può fare a meno della sua condizione: parafrasando certi ideali romantici, si potrebbe dire che non vive propriamente per il successo, ma per lo sforzo incessante e infinito che conduce al successo. Tanto è vero che, alla fine della storia, rifiuta un’offerta dei Boston Red Sox che lo avrebbe fatto diventare il manager più pagato nella storia del baseball, conducendolo verosimilmente agli agognati allori. Insomma, si può essere profondamente “morali” anche quando si è orientati al successo. Vale nello sport, vale nella vita di tutti i giorni. E anche se la sconfitta è sempre dietro l’angolo, si continua ad agire credendo ciecamente nelle proprie azioni (d’altra parte Beane ha comunque rivoluzionato il modo di concepire il baseball, una vittoria che può valere almeno come un paio di World Series). “Papà, sei un gran perdente!”, dice la voce off della figlia di Beane nella magnifica scena finale. Billy se ne va accompagnato dalle note di The Show, pezzo della cantante australiana Lenka Kripac, datato 2008 (curioso anacronismo: viene eseguito proprio dalla figlia del manager in una sequenza del film). Il ritornello della canzone recita: “I’ve got to let it go and just enjoy the show”. Un messaggio per Billy e per tutti coloro che, troppo impegnati a studiare come raggiungere il risultato finale, non si fermano mai per godersi lo spettacolo. Nello sport e nella vita.

Titolo originale: Moneyball; Regia: Bennett Miller; Sceneggiatura: Steven Zaillian, Aaron Sorkin; Fotografia: Wally Pfister; Montaggio: Christopher Tellefsen; Scenografia: Jess Gonchor; Costumi: Kasia Walicka-Maimone; Musiche: Mychael Danna; Produzione: Columbia Pictures, Scott Rudin Productions, Michael De Luca Productions, Film Rites, Specialty Films (II); Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia; Durata: 133 min.; Origine: USA, 2011

 


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