Cous Cous PDF 
Giuseppe Sedia   

I sogni della città non sposavano più i suoi. Per la prima volta si sentiva come estraneo a casa sua. Sulle banchine. E forzatamente alla sua vita”. Jean-Claude Izzo, Au bout du quai

La graine et le mulet. Semola e cefalo. Un accostamento culinario difficile ma non impossibile. Difficile come la convivenza temporanea delle due famiglie di Slimane chiamate a condividere nello stesso spazio il sogno ostinato di un personaggio ispirato al vero padre del regista deceduto durante le riprese dell’originale La schivata (2003). Tuttavia l’ultimo lungometraggio di Abdellatif Kéchiche non ha nulla di propriamente autobiografico. I segni visivi della sua memoria personale sono nascosti tra le pieghe della descrizione appassionata del sessantenne Slimane disposto a mettersi in gioco per inseguire un progetto che coinvolge anche i suoi figli e la moglie che lo ha allontanato dal focolare per i suoi tradimenti.

Sullo sfondo di una “coralità clanica” che viaggia sulle frequenze del Ferzan Ozpetek di Le fate ignoranti (2000), il silenzioso capofamiglia Slimane mette il propio sogno nel bauletto del motorino insieme al pesce fresco comprato sulla banchina e lo distribuisce alla sua famiglia allargata. L’esordiente Habib Boufarès l’ultimo dei “rifugiati poetici” interpretati o diretti da Kéchiche è un supporto melvilliano che immagina a occhi aperti dalla finestra della sua minuscola stanza un riscatto affettivo e sociale sul molo dismesso del porto peschiero di Sète. Un rifugiato poetico come il clandestino Jallel nel lungometraggio La Faute à Voltaire (2000) costretto a sopravvivere in Francia vendendo fiori, frutta e il giornale di strada “Macadam” che annuncia un sconto al botteghino proprio per il film La Graine et le Mulet arrivato sette anni dopo il suo esordio registico.

Licenziato dal cantiere navale nel quale lavora da oltre venticinque anni per aver rifiutato una riduzione dell’orario lavorativo, Slimane Incoraggiato dalla giovane Rim (Hafsia Herzi) figlia della sua amante Karima (Farida Benkhetache), decide d’investire la sua liquidazione nella creazione di un ristorante a conduzione familiare su un piccolo peschereccio. L’attore-regista franco-tunisino ha allargato il campo del suo tema prediletto: il riscatto generazionale dei ragazzi che recitano Marivaux sugli spalti delle banlieues parigine La schivata si configura in Cous Cous come il riscatto di un’intera comunità.

La regia insegue il corpo agile e burroso di Hafsia Herzi e degli altri attori esordienti in un racconto corale girato con pochi piani fissi. La tavola, centro gravitazionale del racconto, punto di riferimento spaziale della sgusciante macchina da presa, è talvolta teatro di dialoghi troppo lunghi e didattici come nella sequenza nella locanda in cui i pensionati musicisti commentano il progetto di Slimane. Una scelta stilistica che penalizza il ritmo narrativo soprattutto negli interni-giorno, prima del frenetico finale notturno che affoga la coppia Boufarès-Herzi nel sudore di una doppia rincorsa in direzione del bivio vita-morte. La sequenza finale lega due corpi in parallelo in un montaggio incestuoso che suggerisce sottotraccia gli estremi di una passione febbrile, disperata e mai consumata.

 


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