Presentato fuori concorso alla 64° edizione del festival di Cannes, Mr. Beaver, di e con Jodie Foster (che veste per la terza volta i panni di regista, a distanza di ben sedici anni dall’ultimo A casa per le vacanze), si presenta all’occhio dello spettatore come un film apparentemente impegnato, smorzato negli eccessi e curato nei particolari.
Tuttavia, man mano che ci si avvicina a Mr. Beaver, come si farebbe con un quadro, e si indagano gli aspetti che ne compongono la tela, la beltà, l’impegno e la tecnica, questi divengono sempre più consapevolmente (all’altrui sguardo) incerti, a tratti anche scontati, se non persino grotteschi. Walter Black (Mel Gibson) dirige l’azienda di giocattoli ereditata dal padre, contornato da una famiglia felice. Finché giunge a fargli visita una compagna di vita sicuramente non gradita ma straordinariamente fedele: la depressione, un vortice di ansie e manie che porta Walter a perdere azienda e famiglia. La moglie Meredith (Jodie Foster), infatti, non se la sente di entrare, portandosi dietro i suoi figli, nel buco nero del marito e decide di abbandonarlo. Sarà l'incontro con un pupazzo, Mr. Beaver (un simpatico castoro), che diventerà per Walter una sorta di alter ego, a condurre per mano il protagonista e a permettergli di risanare l’azienda e di riconquistare l’affetto del figlio più piccolo Henry (Riley Thomas Stewart).
Si potrebbe forse riconoscere alla Foster l’originalità di aver trattato un tema così delicato come la depressione prefigurando uno scenario di gaia speranza ed esplicitando, attraverso l’espediente del pupazzo, quella maschera pirandelliana che tutti indossiamo, benché spasmodicamente ognuno cerchi di celare all’occhio indiscreto dell’umanità circostante. Ma le falle, nel suo Mr. Beaver, sono suo (e nostro) malgrado presenti, quasi che la regista avesse voluto fare il passo più lungo della gamba. Le scene in cui Gibson riprende possesso della propria esistenza (con un castoro mai domo al fianco) sono evidentemente portate all’estremo, con una regia che lievita oltre misura, non riuscendo a mascherare le imperfezioni: il risultato è un quadro grottesco e stentatamente digeribile, acuito dalla classica storia di conflitto genitoriale che vede Walter da una parte e Poter (il figlio più grande) dall’altra. Benché la Foster decida di mescolare i registri, passando dalla commedia al grottesco al drammatico, anche il finale non sembra convincere. L’alter ego impersonato dal castoro, con il passare dei minuti, diventa infatti una presenza oltremodo ingombrante, generando imbarazzo e inquietudine in coloro che gravitano attorno a Walter, incapace di avere il sopravvento sulla marionetta da lui stesso generata. Ed è così che sembra ripiombare nel vortice depressivo, fino a quando non decide di prendere una scelta quanto mai inaspettata e drammatica per riprendere il controllo della situazione e sbarazzarsi del pupazzo. Da qui, il prevedibile lieto fine: il recupero fisico e psichico del protagonista che, finalmente, può contare sul sostegno di tutta la famiglia.
TITOLO ORIGINALE: The Beaver; REGIA: Jodie Foster; SCENEGGIATURA: Kyle Killen; FOTOGRAFIA: Hagen Bogdanski; MONTAGGIO: Lynzee Klingman; MUSICA: Marcelo Zarvos; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2011; DURATA: 91 min.
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