Non è un segreto che lo sfruttamento di un fortunato titolo della storia del cinema, comunemente chiamato remake, origini spesso complicazioni e ambiguità: la scelta della "ripresa" di un testo filmico pre-esistente apre un inevitabile parallelismo tra due opere di solito cronologicamente distanti, con implicazioni storiche, sociali e culturali che spesso ne affettano la riuscita.
Il caso di Vanilla Sky non solo rispecchia questa dinamica, ma si propone come oggetto di studio e di disturbo nel canonico sviluppo di similari operazioni. L'infatuazione improvvisa dell'aitante Tom Cruise per la misconosciuta opera dell'allora ventiseienne Alejandro Amenabar vanta un'implicita tendenza al ridicolo sia per l'intenzione di americanizzare un prodotto dalla forte connotazione europea, ma soprattutto iberica, sia per l'effettivo esito di tale progetto.
Il nuovo film di Cameron Crowe - lo ricordiamo per Singles (1992), Jerry Maguire (1996), Quasi famosi (2000) - si presenta come un ibrido che si muove sulla sottile linea che separa l'accorato rimpianto per l'opera del regista cileno dall'inappagata speranza che lo spettacolo a cui si sta assistendo si trasformi in qualcosa di più della semplice ri-messa in scena di un'opera brillante e ingegnosa. Fin dalle prime battute risulta palese come la scommessa giocata dal regista americano sia persa in partenza. Le motivazioni non vanno ricercate nelle doti di Crowe, che finora si è dimostrato un autore di qualità e dall'ampia visione d'insieme, quanto piuttosto nel "testo" da cui prende le mosse la sua ultima fatica. Abre los ojos (1996) si presenta come una pellicola a tutto tondo, dal meccanismo perfettamente funzionante, dove nulla è lasciato al caso e la costruzione della tensione avviene attraverso una calibrata addizione di elementi informanti.
Il tentativo esplicito operato dalla combriccola d'oltreoceano di cercare in tutti i modi di "linearizzare" lo sviluppo narrativo al fine di una maggiore fruibilità da parte del grande pubblico è sicuramente uno dei difetti che minano alla base la sua riuscita, quando il fascino dell'originale risiede proprio nella difficoltà interpretativa come anche la sua soluzione finale, tanto fantastica quanto fin troppo esplicativa. Crowe tenta ottusamente di ridurre le incongruenze e porre in qualche modo il suo marchio registico trovandosi nella scomoda situazione di dover rifare alcune scene fondamentali del collega e, al tempo stesso, fornire un taglio diverso e personale.
Così la musica (bagaglio artistico e culturale dell'americano) abbandona la primitiva funzione di commento alle immagini debordandovi, contaminandole; l'insistenza del regista nel sottolineare ogni inquadratura con un pezzo musicale crea un patchwork sonoro che, obiettivamente, finisce per infastidire la visione. Così la vivida tematica dell'incrocio tra realtà e sogno, emblema della settima arte nonché motore dell'azione di numerosi registi spagnoli, si perde nel dramma del protagonista alterando inevitabilmente la fruizione dello spettatore. Così la lunga corsa in ascensore, momento topico del film in cui Noah Taylor (catturato da Hollywood in seguito al film E morì con un falafel in mano e scelto in questo caso, probabilmente, per la sua incredibile somiglianza con Nick Cave), nei panni del consulente onirico, offre allo spettatore la chiave di lettura della storia, possiede una buona dose d'involontaria ironia sia per la lunga spiegazione sul subconscio del povero Cruise, sia per la pretenziosità di un citazionismo ingenuo e sinceramente fine a se stesso.
Come se non bastasse, ulteriore conseguenza è l'appiattimento di tutti i caratteri al di fuori del protagonista: da Sofia, ridotta ad un esotico trofeo (veramente imbattibile l'idea di usare la medesima attrice!), all'amico scrittore che diventa un personaggio secondario portandosi nell'ombra il complesso rapporto che sussiste tra i due. Stessa cosa vale per lo psichiatra, trasformato anch'esso (a discapito di un bravo Kurt Russel) in una figura marginale. Se tutto sembra concorrere all'esaltazione della prestazione del divo americano, al contrario questa rimane sotto le righe: Cruise non abbandona la mimica che lo ha reso famoso e che reitera in ogni pellicola, facendo pensare che solo Thomas Anderson sia stato il genio capace (in Magnolia, 2000) di compiere il miracolo dello snaturamento del mitico Top Gun. Neanche il volto sfigurato post incidente, che nel film di Amenabar dava il via ad un intrigante gioco delle maschere e che in questo caso è ridotto a porre l'accento sul dramma di un uomo dalla vita distrutta, sembra riuscire nell'intento.
Ciò che maggiormente disturba dell'opera di Cameron Crowe è proprio il retrogusto amaro della consapevolezza di assistere all'ennesima operazione commerciale. Troppe macchine di lusso, troppa leggerezza, troppa alta tecnologia nelle mani dei protagonisti offuscano il fine ultimo del film. Tutto sembra un surrogato, una brutta copia (attenzione, non un remake!), che indirettamente va a confermarne il valore di un film che - forse - non aveva bisogno di seguiti o rifacimenti.
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