Der Schweinestall: Pasolini e la Germania PDF 
Elisa Cuter   

Si è chiusa in questi giorni una mostra dedicata a Pasolini allo Schwules Museum, il museo omosessuale di Berlino, che ha ricordato l'opera dell'intellettuale in occasione del novantesimo anniversario dalla nascita con una piccola ma interessante esposizione curata da Wolfgang Theis. La mostra si proponeva due obiettivi. In primo luogo quello di sostenere la provocatoria (ma suggestiva) tesi di Giuseppe Zigaina contenuta in Pasolini e la morte, secondo la quale il regista italiano avrebbe volontariamente organizzato la propria morte come “montaggio” definitivo e necessario alla comprensibilità della sua vita, concepita in toto come opera (cinematografica, dunque, restando all'interno della sua stessa metafora). In secondo luogo, la mostra intendeva essere anche un percorso tematico volto a riflettere sull'arte di Pasolini come arte “omosessuale”.

In quanto indagine sulla sua estetica, la produzione cinematografica dell'autore era il punto centrale dell'esposizione: la mostra era organizzata in piccole zone composte di documenti e fotografie dedicate a diversi temi, alcuni biografici, dalla famiglia agli amici, altri prettamente legati alla sua opera, come i piccoli altarini per le muse (Betti, Mangano, Callas e Magnani) o un'originale raccolta sui film di cui Pasolini fu soltanto sceneggiatore. Sono d'altronde i suoi film ad aver avuto maggiore fortuna in Germania, insieme alla sua stessa figura  di intellettuale controverso, emblema della diversità. Azzeccatissima in questo senso si dimostra la scelta di seguire il fil rouge suggerito da Zigaina, che, se dimostrato, sarebbe la prova inconfutabile che Pasolini aveva egli stesso inteso la propria vita, la sua stessa figura, come un'opera d'arte, in una rielaborazione mitografica che più di tutto il resto della sua attività artistica e intellettuale ha influito sull'immaginario tedesco. Le sue contraddizioni di vittima sacrificale pagana e cristologica al contempo, di spina nel fianco per "entrambe le chiese italiane" (secondo le parole di Theis) - la chiesa cattolica e il PCI -, sono prese come fonte d'ispirazione da diversi pensatori in Germania. La stessa omosessualità di Pasolini è affrontata dal punto di vista del suo effetto sovversivo per la società dell'epoca. Non mancano, infatti, testimonianze e riflessioni post-mortem sull'autore, tra cui una rassegna stampa con le prime pagine dei quotidiani tedeschi alla notizia dell'omicidio, che sotto un certo aspetto sono il tesoro più prezioso dell'esposizione.

L'aspetto più interessante della mostra è forse quello che offre uno spunto per comprendere la storia della ricezione di Pasolini in Germania, più influente di quanto si potrebbe pensare. La capitale tedesca, in particolare, non è nuova a commemorazioni e omaggi alla figura dell'intellettuale italiano, mentre nel 2008 a Casarsa si è tenuto un convegno in lingua tedesca dedicata all'autore, spesso riproposto anche in cineforum privati e molto amato dai giovani studenti tedeschi. Molte delle riflessioni complesse, e talvolta paradossali, di Pasolini sono affini a quelle che popolano il sottosuolo della sinistra tedesca, soprattutto quella meno canonica e più recente. In particolare, le sue riflessioni di critica anti-capitalista si avvicinano molto al classico dibattito tra Kultur e Zivilisation, come anche alle tesi della Scuola di Francoforte, senza contare che il suo vagheggiamento della civiltà rurale fu speso anche dal partito dei Verdi nel discorso sui pericoli dello sviluppo del boom post-bellico. Ma se il suo conservatorismo e il suo pre-industrialismo nostalgico sono accolti con favore dall'intellighenzia tedesca, è guardato con sospetto, e spesso volontariamente dimenticato, l'inevitabile corollario delle sue posizioni talvolta reazionarie in campo sociale: si pensi alla sua opposizione alle lotte studentesche del Sessantotto, alla sua clamorosa presa di posizione contro l'aborto, o al suo rappresentare in Salò o le 120 giornate di Sodoma il matrimonio omosessuale come parte di una grottesca normalizzazione che si rovescia nel suo contrario, non a caso all'interno di quella caricatura, di quell'obbrobrio morale ma anche estetico che è il fascismo. Si tende quindi, in Germania, a celebrare esclusivamente il Pasolini “corsaro”, trascurandone le contraddizioni di italiano comunista cattolico e omosessuale, e perdendo perciò anche molta della sua eversiva fecondità. Non è un caso se, mentre l'opera poetica di Pasolini non ha mai trovato traduzione in lingua tedesca, l'edizione Wagenbach del '79 degli Scritti corsari vendette in pochi mesi ben 40.000 copie. Si può dire che in Germania forse proprio solo i movimenti omosessuali riescono a esaltare anche l'aspetto più paradossale e indipendente del suo pensiero come opposizione al desiderio piccolo-borghese di riconoscimento sociale, con il quale Pasolini, e il movimento gay tutto, non intendono avere niente a che fare. L'omosessualità dell'autore in questo caso è intesa non come una contingenza da rivendicare per via della sua “naturalità”, ma piuttosto come una necessità plasmante tutto il suo pensiero di outsider, aperto proprio in virtù della sua alterità. Una sorta di terzo occhio che lo rende perennemente capace di uno sguardo più profondo su ciò che lo circonda e allo stesso tempo insoddisfatto per costituzione di ciò che vede, e perciò sempre in cerca di qualcosa d'altro. Ma questa sua volontà di violare i limiti imposti non resta impunita: come per Icaro, avvicinarsi al sole vuol dire bruciarsi le ali. O esser dato in pasto ai porci.

Se è lecito parlare, quando si tratta dell'opera di Pasolini, di suggestioni, similitudini e allegorie, si vede bene come con il passare degli anni queste diventino sempre più cupe: dalla sessualità gioiosa celebrata nella Trilogia della vita alla sua trasfigurazione terrificante in Salò. Ma c'è un gradino che a quest'ultima conduce, e che può essere considerato di questo film un prodromo meno sconcertante ma ugualmente disperato, ed è proprio l'unica opera in cui Pasolini tematizza esplicitamente le sue riflessioni sulla Germania, cioè Porcile, del 1969, tratto dall'omonima pièce teatrale del 1966. Protagonista ne è Julian Klotz, venticinquenne borghese, figlio di un magnate industriale della Germania Ovest, con un inconfessabile segreto: il ragazzo manifesta la sua intima (e inconscia) opposizione al padre accoppiandosi con i maiali dei porcili circostanti la sua villa di Godesberg. Nella confessione di Julian (Jean Pierre Léaud, in quella che fu sicuramente la sua interpretazione più scomoda) a una giovane inutilmente innamorata di lui, sta una delle testimonianze più intense e disarmanti di Pasolini sulla sua omosessualità, amore osceno, inaccettabile e, profeticamente, fatale, come quello di Julian per i porci che nel finale lo divorano. Nelle sue parole si esplicita una condizione vissuta con dolore, come una croce, eppure amata, in quanto unica forma possibile di rifiuto del mondo a cui non si vuole appartenere, come "una grazia, che, seppure come la peste l'ha colpito", è inevitabile ma al contempo consapevolmente scelta. Proprio questo segreto sarà però negoziato a caro prezzo dal padre al suo rivale in affari: pur di non rendere pubblico lo scandalo Herr Klotz accetta infatti di fondere la sua azienda con quella di Herr Herdhitze, implicato in crimini nazisti ma tornato sulla scena grazie a una plastica facciale. E infatti l'altro grande tema del film è il nuovo volto della Germania di Bonn che, anche se sulla carta "non è mica la Germania di Hitler! Si fabbricano lane, birre e bottoni. Quella dei cannoni è un'industria d'esportazione", come afferma il padre all'inizio, è rappresentata proprio dalle due figure di quest'ultimo e del suo avversario. Il primo è un relitto dell'alta borghesia nazista, con l'acconciatura e i baffetti del Führer, con la sua consapevolezza, datagli dalla sua “formazione umanistica”, che "Brecht potrebbe benissimo, buonanima, farci fare la parte dei cattivi in una pièce dove i poveri sono buoni", ma, soprattutto, destinato alla sconfitta (ed è infatti in sedia a rotelle). La coscienza paradossalmente ancora umana che in questa classe, nonostante tutto, si conservava è destinata a soccombere: sulla scena è arrivato il volto nuovo del capitalismo (rappresentato da Herdhitze), che Pasolini non esita a indicare come ancora più mostruoso del nazismo stesso. In parte perché sua mistificazione, e quindi più difficile da identificare e combattere, in parte perché compimento totale delle sue premesse: se, come sostengono i francofortesi, ma anche Hannah Arendt e Zygmunt Bauman, vera cifra del nazismo non furono l'odio e il sadismo ma l'utilizzo della razionalità occidentale nella sua deriva calcolatrice e opportunista, nel nuovo capitalismo, fatto di calcolo del profitto e in cui scienza e tecnica vengono a coincidere, diventa palese la continuità del progetto, il cui obiettivo è un mondo in cui, come afferma orgoglioso lo stesso Herdhitze, "non ci sarà più traccia di cultura umanistica, e gli uomini non avranno più problemi di coscienza".

La scelta di fare della vicenda una farsa grottesca comunica un senso di grande impotenza, lo spettatore si scontra contro le facce di gomma di Alberto Lionello, Tognazzi e Ferreri perennemente contratte in una smorfia sorridente, in contrasto con l'altra parte del film che scorre in parallelo, in cui un cannibale sulle pendici dello Etna in epoca probabilmente medievale va a caccia delle sue vittime. L'ascesi che sembra comunicare questa seconda vicenda fa da contrappunto a quella di Julian, che è a suo modo anch'essa molto individualista, quasi autistica come il suo protagonista, poco spendibile dalla solita sinistra (anche qui, ad esempio, le rivolte studentesche, sono liquidate con un amaro senso di superiorità). Forse anche per questo il film non è uno dei più fortunati del regista, non essendo nient'altro che una diagnosi disperata, senza alcuna ipotesi di terapia. Anche il tema del cannibalismo, rappresentato in chiave positiva nella vicenda parallela come ritorno alle origini, cioè a una fase di spontanea comunicazione con i propri istinti, o in Uccellacci e uccellini, in cui il corvo invita a mangiare e digerire i maestri, viene orrendamente ribaltato nel suo opposto nel dialogo sempre tra Herr Klotz e Herr Herdhitze: "Germania, quanta capacità di digerire ... merda. E quanta capacità di defecare! Nessuno defeca come noi tedeschi!", in una sorta di anticipazione delle scene atroci del vassoio di escrementi umani in Salò. Nessuna speranza è possibile. D'altronde, com'è noto, non si scrivono poesie dopo Auschwitz.

 


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