Platoon: l'incoscienza della vendetta PDF 
Mario Bucci   

L’ultima volta che ho visto Platoon di Oliver Stone è stata anche la prima, in sala. Il film venne proiettato al cinema Oriente, uno dei palazzi liberty più belli della mia città, che oggi ospita invece una sala bingo. Come sono cambiati i tempi… Era una domenica pomeriggio, spettacolo delle 16:00, e il giorno dopo avrei dovuto sostenere il compito in classe di matematica. Andai al cinema con un amico, e il giorno dopo presi 2 al compito. Il mio amico 7. Non so se per questo motivo ho custodito dentro di me un ricordo non del tutto piacevole del film, ma sta di fatto che quello che notai all’epoca (frequentavo le medie) l’ho notato anche adesso, quando ho rivisto il film di Oliver Stone comodamente seduto in casa mia (quel giorno al cinema faceva anche un gran freddo). Ho cercato dunque di capire perché avesse vinto quattro premi Oscar, e perché non mi fossi posto la stessa domanda all’epoca. Evidentemente ero troppo giovane per pormi dubbi su un lavoro proiettato sul grande schermo. Pochi ricorderanno poi che di quel film ne uscì subito anche un videogioco per Commodore 64 o Amiga (può darsi per entrambi), e anche su questa cosa riflettei poco, preferendo sparare all’impazzata contro i nemici “vietcong” armato di joystick e tastiera. Se ci penso adesso non c’era molta differenza tra me e il protagonista Chris Taylor nello scoprire che uccidere è bello, perché l’adrenalina di tener salva la pelle ti acceca, e ti rende un killer al servizio di niente. Proprio da questo dubbio morale, da questo basso istinto che mi colse all’epoca, parte oggi questo approfondimento.

“Benvenuti in Vietnam” è la prima battuta del film, e viene pronunciata all’arrivo al fronte di Chris Taylor (Charlie Sheen), mentre passano davanti ai suoi occhi le body bags, le sacche nere con le quali vengono chiusi e trasportati i caduti sul campo. “Carne fresca” commenta subito dopo un altro commilitone guardandolo… ed ecco che il film ci introduce senza orpelli a quella che è in realtà l’esperienza autobiografica del regista. Oliver Stone, infatti, aveva partecipato alla guerra in Vietnam e non poteva, avendo la possibilità di porsi dietro la macchina da presa, non raccontare anche lui quella che è stata la prima grande sconfitta dell’esercito americano. Cosa succede al fronte, lontano da casa, quando si ha a che fare con un nemico del quale poco o nulla si conosce? Accade di tutto, e si completa un senso di vendetta che in fondo è un gesto di autodistruzione. Le convenzioni e le classi sociali che in patria contraddistinguono la suddivisione economica ed intellettuale della società americana saltano come mine nascoste nella giungla, e sono capovolte per necessità e spirito di sopravvivenza. Così accade che tenenti e generali, graduati e semplici reclute, bianchi e neri (soprattutto) si ritrovino spalla a spalla sulla sottile linea rossa della sopravvivenza, ribaltando più un valore (quello sociale d’appartenenza) che negli Stati Uniti era ancora in discussione. Il caos della guerra come spunto di riflessione su una struttura sociale ormai troppo arcaica per essere ancora baluardo del progresso occidentale.

Fin qui, tutto bene. In fondo, di fronte alla morte siamo tutti uguali, sembra dire Oliver Stone. Alla prima missione notturna Chris, a causa della sua inesperienza, si rende subito colpevole della morte di un commilitone, dopo che un gruppo nemico ha aperto il fuoco senza che lui, unico ad essersi accorto della loro presenza, sia riuscito a prevenire l’attacco. Il personaggio interpretato da Charlie Sheen viene presentato, fin da subito, come un benestante incapace, colpevole di essere andato in guerra per aiutare il suo paese piuttosto che partecipare alle contestazioni contro la guerra stessa, e che poiché non ha le idee chiare su cosa accade al fronte risulta anche essere pericoloso per la propria squadra. In fondo è un volontario, si può anche giustificare, ma da questo momento in poi la struttura del film (quasi un racconto di formazione) si concentra sul suo percorso espiatorio ai limiti del delirio, che porterà il giovane volontario non solo a difendere l’amico che più di tutti lo ha accusato di quell’incidente, ma che lo trasformerà anche nel giustiziere del sergente Barnes (la faccia segnata di Tom Berenger), non prima però di avergli fatto provare i brividi dell’omicidio, l’ebbrezza di sparare all’impazzata contro il nemico, fino al punto da gridare “...è bellissimo”. Chris, passando così dall’innocenza alla colpevolezza, si ritrova a fare anche da giustiziere, senza un percorso che si possa concludere con una presa di coscienza forte, e che si concentra sui bassi istinti che la guerra stessa muove nell’uomo: il delirio onnipotente cresciuto nello stringere un mitragliatore in mano, e il senso di giustizia vendicativa che può cogliere chi questo inferno lo ha vissuto, dall’inizio, quando da agnellino si è trasformato in lupo. Così come Chris, Oliver Stone si perde nel volo finale sull’elicottero (tra i cieli di Apocalypse Now, interpretato dal padre di Charlie Sheen), dove con uno sguardo dall’alto si prende posizione fino a riassumere che la guerra vera è quella interna, e che il marcio che sta dentro di noi va ucciso, senza che però vi sia una condanna a questo gesto (l’omicidio contro l’omicidio insomma).

Capodanno del 1968, la contestazione sta esplodendo in tutto il globo, ma in Vietnam si festeggia il fatto di essere ancora vivi, all’inferno, nell’impossibilità della ragione. Abbandonando quindi il percorso di formazione del protagonista, la macchina da presa e la scrittura del film si concentrano poi sui modelli tra i quali oscilla il pensiero militare americano: il modello Barnes, che tra il vendere cara la pelle al nemico e il vendicarsi contro di lui preferisce spesso la seconda opzione (il tremendo assalto al villaggio, la parte più concreta e violenta del film), e il modello Elias (grande Willem Dafoe), fatto invece di morale della vita e disprezzo per l’esaltazione militare. Il secondo problema di questo film dunque sta proprio in questo, nel didascalico opporsi dei due modelli (significativa è la parte del riposo notturno, tra un gruppo che ascolta White Rabbit dei Jefferson Airplane e un gruppo che trattiene la violenza mangiando lattine di birra), dualismo dal quale il protagonista non riesce ad emergere con una posizione propria, uno sguardo super partes (infatti Chris terminerà il proprio viaggio vendicandosi del sergente Elias, con un gesto impuro quindi). Non serve allora la voce off del protagonista che legge le lettere a casa (“cercare la bontà è un significato in questa esistenza”), per quello che sembra più un espediente narrativo (ancora Apocalypse Now) piuttosto che una vera riflessione, una presa di coscienza. Rimanendo alle citazioni, e agli spunti di confronto, inevitabile è, come si è visto, l’accostamento ad Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, poiché in entrambe le pellicole c’è un percorso “conradiano” verso il male, ed entrambe le pellicole terminano con quella che viene considerata l’estirpazione del male (ma Coppola era più credibile, sia nella messa in scena sia nella ricostruzione davvero assurda del fronte). Particina anche per Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, quando nella giungla compare un cerbiatto (la caccia di Robert De Niro). Anche se la cosa migliore del film si vede dopo il grande conflitto/mattanza notturna, quando “arrivano i nostri” derubando i cadaveri dei propri commilitoni. George A. Romero, lo aveva già raccontato molti anni prima…

Continuo dunque ad avere dei dubbi sul potenziale di Platoon, forse troppo retorico (i dialoghi così diretti, così anni Ottanta), con una struttura narrativa datata e un impatto visivo che cerca di colpire allo stomaco lo spettatore senza mai riuscirci veramente (se si esclude la morte di Willem Dafoe e la testa spaccata al ragazzo nel villaggio, davvero crudeli e di grande effetto), con un buon cast (Charlie Sheen a mio avviso è più adatto alle commedie) e con due co-protagonisti che rubano la scena al protagonista (Tom Berenger e Willem Dafoe), il che vuol dire spesso che c’è qualcosa di sbilanciato nella struttura. Quando Platoon esce nelle sale, vincendo come si è detto 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior suono e miglior montaggio), inaugura un periodo di riflessioni cinematografiche sul Vietnam (la storia del cinema è ciclica così come la storia economica, sociale, politica di ogni paese), cui seguiranno con minore successo pellicole altrettanto didascaliche ma più violente come Hamburger Hill – Collina 937 (1987) di John Irvin, e Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma. Con Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick non si possono sprecare parole in paragoni, siamo su un altro pianeta con sir Kubrick.

Alcune cose le ricordavo bene però: la scena con White Rabbit in sottofondo (il militare che stringe la statua di donna), il pianto dei bambini nel villaggio, la testa spaccata del ragazzo vietnamita, la faccia di Tom Berenger e la morte di Willem Dafoe (un grande manifesto). Non so se questo è un pregio per il film, perché avevo dodici/tredici anni credo, e a quell’età è più facile ricordare. Comunque, la scuola che frequentavo all’epoca in cui Platoon uscì nelle sale non c’è più, adesso ci sono gli uffici di Fastweb. 

TITOLO ORIGINALE: Platoon; REGIA: Oliver Stone; SCENEGGIATURA: Oliver Stone; FOTOGRAFIA: Robert Richardson; MONTAGGIO: Claire Simpson; MUSICA: Georges Delerue; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1986; DURATA: 117 min.

 


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