Infinity Festival 2003 - Panoramica PDF 
di Roberto Manassero   

Per chi conosce una città come Alba, l'idea stessa che in essa si tenga un festival del cinema suona miracolosa. Il fatto, poi, che Infinity Festival, giunto alla seconda edizione, tenutasi ad Alba dal 5 al 12 aprile, sia una rassegna dedicata alla ricerca spirituale nel cinema, lo caratterizza ancora di più come un corpo estraneo: non solo nell'albese, ma anche, e soprattutto, nel panorama festivaliero internazionale.

Nelle intenzioni degli organizzatori, infatti, Infinity Festival, più che il solito agglomerato di pellicole e rassegne, vuole essere un momento di incontro e discussione tra cineasti, addetti ai lavori e pubblico. Il concetto di spirituale, dopotutto, svincolato, occorre precisarlo, da connotazioni confessionali, favorisce le attitudini alla riflessione e al dialogo che mancano negli altri festival e che, solitamente, sono usate solo in sede critica. Ecco, allora, che Infinity diventa davvero, come tende spesso a precisare il direttore Luciano Barisone, un modo nuovo e militante di fare critica, oltre la freddezza della pagina scritta e aperto all'imprevisto del work in progress.

Certo, i rischi ci sono tutti, dalla scarsità del pubblico, alla necessità di cedere qualche posizione (Dreamcatcher di Kasdan, per esempio), ma Infinity Festival nella sua seconda edizione ha confermato tutte le sue qualità: senza scomodare, come qualcuno ha fatto, indifendibili paragoni tra lo slow food (nato proprio in queste terre) e lo slow cinema, si può dire che esso rappresenti ormai un'oasi di pace nel mondo del cinema e, soprattutto, un terreno di scoperta in continua evoluzione.

Dai film in concorso e fuori concorso (tra i quali Auto Focus di Schrader e Ararat di Egoyan), alle retrospettive su Nicolas Philibert, Andrej Konchalovskij e Corso Salani, al focus sul documentario russo e brasiliano, il programma presentava uno sguardo sul cinema contemporaneo che abbatte le errate contrapposizioni tra cinema e documentario, dando forza, invece, ad un unico, grande respiro di cinema nel quale finzione e documentario, nord e sud, indipendenza e industria, trovano un punto di contatto.

Chiaro che in tutto questo non conta chi vince e chi perde, chi arriva o chi resta a casa. Contano le lezioni di cinema tenute da Fitoussi, Salani, Philibert e Konchalovskij (del quale si sono rivisti capolavori come Storia di Asja Kljaina, Siberiade, Maria's Lovers, A trenta secondi dalla fine), gli incontri quotidiani con gli ospiti e quelli dedicati ai temi "La linea del perdono" e "Dialettiche di pace", lo spirito della sezione "Cinema, a New Vision" (nella quale sono emersi il polacco On Hitler's Highway di Lech Kovalski, l'indiano Ether di Velu Viswanadhan, l'americano Wanted di Kim Hopkins), dedicata a produzioni per le quali il cinema, in pellicola o in digitale, di finzione o documentario, diventa una fonte di inesauribile scambio tra il regista e l'alterità.

Per la cronaca, ha vinto l'argentino Extrano di Santiago Loza (già vincitore a Rotterdam), storia dell'erranza fisica e spirituale di un uomo che ha smarrito il senso dell'esistenza: un film pieno di sguardi, silenzi e conversazioni a vuoto, perfetto, ma anche troppo, per le linee guida del festival. Meglio, ed è una sorpresa, Un mondo d'amore di Aurelio Grimaldi, commovente biografia degli anni giovanili di Pasolini, l'ungherese Pleasant Days di Kornel Mondruzco, apologo in stile iperrealista sulla gioventù dell'Ungheria del dopo-comunismo, The Turning Gate del coreano Hong Sang-Soo, storia di un giovane diviso tra due donne, girato meravigliosamente (ha vinto per la miglior regia) e pervaso da una malinconica rassegnazione a tratti ridestata dall'esibita fisicità dei personaggi. Tutto sulla fisicità è anche basato Japon del messicano Carlos Reygadas, film dalle smisurate ambizioni filosofiche, provocatorio ed eccessivo, che riesce, però, a fondere l'ampiezza del Cinemascope con l'intimità di scene di stupefacente commozione: l'accoppiamento di due cavalli, il rapporto sessuale tra il protagonista e l'anziana donna che lo ospita, il carrello in avanti che chiude il film in un'atmosfera di epifanico stupore.

Sentimento, questo, che si prova anche (ri)vedendo il miracoloso Essere e avere di Nicolas Philibert, la cui retrospettiva, nell'anno della sua consacrazione, ha segnato l'evento più importante di Infinity Festival. La disponibilità e la gentilezza con le quali Philibert si è offerto al pubblico di Alba è sembrata la stessa con la quale egli ha filmato gli alunni della scuola elementare protagonista del suo film: un atteggiamento rispettoso, entusiasta ed implacabile per cogliere con il cinema l'attimo stesso nel quale la vita prende forma. Il cinema di Philibert, sospeso tra la finzione e il documentario, teso a rendere sullo schermo la "più piccola delle cose" (La Moindre de choses è il titolo di uno dei suoi film più belli), sembra davvero racchiudere il senso più profondo di Infiniy Festival: l'idea di un cinema che diventa espressione di "un'etica attraverso un'estetica", l'espressione materiale dei motti dello spirito e del cuore.

 


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