L'uccello che risorge: The Master PDF 
Aldo Spiniello   

Cos'è The Master? O meglio chi è davvero il Maestro del titolo, a parte questo affascinante, cialtrone, fragilissimo guru che risponde al "nome" di Lancaster Dodd? Perché, con la sua superficie liscia eppur respingente, l'ultimo attesissimo (fin troppo) film di Paul Thomas Anderson appare uno scrigno segreto che promette sensi nascosti, derive inaspettate, oltre la lettera (o la parola). Freddie Quell, questo immenso Joaquin Phoenix, che pare arrivato al termine di quell'assurdo percorso di abbrutimento intrapreso con I'm Still Here, sfoga le proprie pulsioni erotiche e fa la sua comparsa muovendosi ai margini di un conflitto invisibile. È un uomo abbrutito che occupa gli spazi vuoti degli eventi, in un indefinito tempo morto. E sarà la cifra costante di un film che sfiora appena la Storia, per annidarsi nelle sue zone oscure, in un universo parallelo ed esoterico, appena lambito dalla realtà. The Master è il racconto di una quarta dimensione, di sette che navigano in acque aperte per fuggire il mondo, che rifiutano di adeguarsi alle regole della logica, della dialettica, del senso e, proprio per questo, diventano lo specchio deforme dell'oscurantismo contemporaneo. La cosa che davvero stupisce, nonostante le aspettative di un grande affresco storico, di un fuoco d'artificio stilistico, di un'imponenza visiva promessa da quei benedetti 70 mm, è l'insistenza con cui tutto sembra ridursi alle dimensioni intime e modeste di un film da camera, che si rinchiude in interni opprimenti, si concentra su dialoghi serrati, su quel vertiginoso confronto attoriale tra Phoenix e Hoffman, che, come fosse un buco nero, risucchia qualsiasi altra cosa. E questo restringimento della prospettiva in un soffocante punto di fuga rispecchia alla perfezione la marginalità del mondo raccontato da Anderson. Ma, al tempo stesso, porta all'esasperazione le tendenze ossessive del suo cinema, obbligandoci ad altri ragionamenti, a suggestioni retrospettive, che spostano il senso del film, anche oltre le intenzioni.

Come sempre, Paul Thomas Anderson non parla ad altri che a sé, provando, ancora una volta, a ritrovare le radici d'America nella cupa voragine dei rapporti padre/figlio, uomo/donna, infettati inesorabilmente dalle ossessioni personali, dalle fissazioni maniacali, dalle solitudini, dagli egoismi rapaci. E, non a caso, Greed di Stroheim appare, sempre più, l'unico orizzonte mitico intravisto da Anderson, la sola nascita (del cinema) della Nazione possibile, a cui sarà pagato il tributo dovuto con quell'allucinata corsa in moto nella desolazione lunare della Death Valley. Gruppi di famiglia in un interno. E si svela, finalmente, come il cinema di Anderson, nonostante le volute dello stile, sia fondato, prima ancora che sull'immagine, sui corpi. Corpi morenti, sofferenti, tesi fino all'inverosimile, sovreccitati, incontrollati, caldi e rassicuranti o rigidi e minacciosi. La figura torva, arcigna del petroliere, piegata in due dal peso del denaro (In God We Trust) è la premessa del corpo "storto" di Freddie Quell. Sono loro a incarnare l'anima selvaggia della Nazione. E all'estremo opposto c'è lo spettro della civiltà, il profilo obeso, pingue, molle, lascivo di Lancaster Dodd. E al centro di tutto i corpi di donna, quello ancora acerbo e puro di Doris (Day), quello rigido e materno di Peggy Amy Adams (si è ammorbidita molto) o ancora quello florido, "accogliente" dell'ultima amante di Freddie, Winn.

The Master è, davvero, un film d'anatomia, in cui lo studio fisiognomico dei volti, specchio delle anime, questa catalogazione lombrosiana si costruisce attorno a un'ossessione insana per il corpo femminile, rivisto e ricercato in ogni istante, in una bambola di sabbia, in una macchia di Rorschach. È forse la Donna il vero Master, la dominatrice che maneggia sicura lo "scettro" del potere, sogno e incubo, orizzonte del desiderio e della paura? "Rimettilo dentro" è l'ultima frase che pronuncia Freddie: ritornare alla sicurezza del grembo, del perduto paradiso "prima della nascita". Ma se fosse solo questo il punto, se ci limitassimo a inseguire le tracce dell'universo mitico di Anderson e del suo apparato simbolico, The Master rimarrebbe un assurdo oggetto alieno. No, il punto è un altro, probabilmente. C'è un altro film, che sembra prender vita a partire dalla presenza sconvolgente di Phoenix. Il corpo contorto di Freddie Quell, nodoso come un vegetale, duro e respingente come una roccia, va riportato alla sua sostanza umana. È un corpo da plasmare, da ridefinire e correggere nei suoi impulsi animaleschi, nei comportamenti antisociali, nei suoi scatti incontrollati. Ma questo sforzo di rieducazione e ridefinizione non può che tradursi in un lavoro sull'attore, dell'attore. Allora, The Master appare, finalmente, come un film completamente basato sulla fatica della performance. Gli infiniti e spossanti esercizi cui il Maestro sottopone Quell sembrano davvero il tour de force di un attore alla ricerca del metodo, del controllo dei propri gesti, fino alla possibilità del salto "fantastico" dell'interpretazione. Cosa senti quando tocchi quel vetro, quella parete di legno? Tutta la seduta ipnotica in cui Freddie è costretto a rispondere senza mai chiudere gli occhi è un'altra prova limite in cui il lavoro su di sé è un viaggio alla ricerca della propria memoria e del proprio vissuto, premessa indispensabile di ogni futura immedesimazione.

Ed è questo coaching attoriale sfiancante l'aspetto più interessante di The Master, quello che meglio designa la posta in gioco e l'incontro/scontro tra i due protagonisti, aldilà delle sempre ovvie (per Anderson) relazioni fallite padre e figlio o delle derive sottilmente omoerotiche del loro rapporto. I momenti di passione smodata, quel gioco nel prato a metà tra la lotta e l'amplesso o la penosa canzone finale di Lancaster con le lacrime agli occhi, dopo aver detto, quasi fosse un'altra signora della porta accanto, "o con me o senza di me" sono i segni più evidenti di un ambiguo rapporto d'amore che rappresenta una fuga dall'opprimente strapotere femminile che attraversa tutto il film, quell'ossessione vaginale cupa, schiacciante. Ma, alla fine, l'incontro/scontro fondamentale è quello tra l'illusione di un metodo e la brutalità geniale dell'istinto, tra l'assurdità di una regola che si autoproclama definitiva e l'irrefrenabile (auto)distruttiva spinta della trasgressione. Il cinema mostra il suo conflitto più antico e irriducibile: l'ansia del controllo e la necessaria, vitale libertà dell'ispirazione. The Master è, infine, un film su un regista e un attore, che si amano, si scontrano, s'inseguono per poi lasciarsi definitivamente. È Anderson il vero Maestro, che sogna d'innalzare un altare definitivo alla grandezza del proprio talento. E non è Quell ad andarsene. Ma Phoenix, che dopo averlo seguito e assecondato, lo abbandona per cercare un posto più caldo. In un colpo solo, ci regala un altro film, più libero e folle. È stato segnato, è vero, ma il mondo gli offre ancora la possibilità di interpretare ciò che vuole, anche il proprio Maestro. Fino a scoprire, magari, il segreto più grande, quello della sua identità, ciò che è, ciò che potrebbe essere. Phoenix. L'uccello che risorge dalle sue ceneri.

 


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