Cannes e dintorni 2005: lasciate ogni speranza voi che entrate PDF 
di Maurizio Ermisino   

Lasciate ogni speranza voi che entrate. È questa la sensazione che traspare appena usciti da molte opere presentate all'ultimo Festival di Cannes: storie cupe, senza via d'uscita, prigioni dell'anima da cui non si può scappare. Mondi opprimenti, angoscianti. Noi ne abbiamo viste solo alcune a Milano, grazie alla rassegna organizzata dall'Agis lombarda, ma dai commenti provenienti dalla Croisette è sembrata trapelare la stessa sensazione: sembra che le opere di Cronenberg e Von Trier, che non sono arrivate a Milano, non brillassero certo per ottimismo.

Cominciamo da Cachè di Michael Haneke, premiato a Cannes col premio alla regia: è la storia di una coppia (Daniel Auteuil e Juliette Binoche), sposata con un figlio, che all'improvviso comincia a ricevere delle videocassette che riprendono l'esterno della loro abitazione, accompagnate da strani disegni, infantili ma lugubri. Qualcuno li sta osservando. Lo spunto è simile a quello di Strade Perdute di David Lynch, ma lo stile e i propositi di Haneke sono completamente diversi. Haneke gira con inquadrature fisse e soggettive, che rappresentano le riprese fatte da una videocamera: il suo stile è freddo e per nulla visionario. Freddi sono i toni della fotografia, e fredde sono anche le persone. E anche i propositi sono diversi: Haneke ci ricorda che ognuno di noi ha i suoi scheletri nell'armadio, gli incubi della borghesia non fanno dormire sonni tranquilli. Cachè è un finto thriller, e la trama gialla è un travestimento per quello che in fondo è un racconto morale. E politico, perché il riferimento al trattamento riservato dai francesi agli immigrati è evidente. Alla fine non sappiamo chi sia stato a fare le cassette, ma la sensazione è quella di un monito: attenti, siete sempre sotto controllo. Viene in mente l'idea che si tratti di un deus ex machina superiore, forse soprannaturale. Ma, indipendentemente da chi ci sia a controllarci, il messaggio è chiaro: certe macchie non possono essere cancellate.

Se il mondo di Haneke è senza speranza di riscatto, è senza speranza anche quello dei fratelli Dardenne. Per spiegarlo basterebbe già il grigio plumbeo del cielo sotto il quale si svolge L'enfant, il film che ha vinto la Palma d'Oro. Due ragazzi, Bruno e Sonia, mettono al mondo un figlio, ma sono troppo immaturi per occuparsi di lui. Soprattutto il padre, che finirà addirittura per venderlo, salvo poi pentirsi, ma pagando le conseguenze. I Dardenne sono ripetitivi, fanno sempre lo stesso film? Queste sono le accuse maggiori a carico del duo belga, e anche nei confronti di chi li ha fatti vincere. Accuse condivisibili, ma L'enfant è un film che tiene inchiodati dall'inizio alla fine. Girato in stile neorealista, con camera spesso a mano e luci naturali, ci fa temere da subito per la sorte del neonato, che capiamo essere in pessime mani. Ma anche per un giovane complice di furti di Bruno, che ci ricorda la sorte che poteva toccare al piccolo Antoine Doinel de I 400 colpi. Ma chi è l'enfant del titolo? Il piccolo Jimmy venuto al mondo senza colpe, o il padre Bruno, che continua a comportarsi come un irresponsabile, per nulla consapevole del suo ruolo? Il momento in cui Bruno viene picchiato è catartico, perché il suo atteggiamento è talmente indisponente da farci desiderare una qualche punizione per lui. Segno che il film è riuscito, in virtù di attori perfettamente aderenti al ruolo e di uno script efficace e senza fronzoli. Si capisce che i personaggi non avranno futuro, anche se le lacrime finali di Bruno ci lasciano intravedere un barlume di umanità. Viene in mente la frase conclusiva di M di Fritz Lang: dobbiamo proteggere meglio i nostri bambini.

Poche speranze anche per i bambini di Quando sei nato non puoi più nasconderti, di Marco Tullio Giordana, unica opera italiana in concorso. Il protagonista qui è Sandro, un bambino che cade in mare durante una gita con il padre e un amico. Viene ripescato da una nave di clandestini, tra cui Radu e Alina, due giovani rumeni, e imparerà a guardare il mondo da un'altra prospettiva, facendo i conti con la sua coscienza. C'è un cinema della compassione in Italia, un filo sottile che da Cuore Sacro passa a questo film, un cinema che racconta l'empatia con il prossimo, partendo dalla condivisione delle stesse esperienze. Ozpetekiano nei temi, l'incontro con l'altro che porta a rivedere se stessi e la propria vita, Quando sei nato non puoi più nasconderti mostra anche un nord est più cafone e insensibile che mai, in cui, per contrappasso, le colpe dei padri ricadono sui figli: è a Sandro, e non a suo padre, che tocca l'Odissea nel mare, un viaggio tormentato come quello dei protagonisti di Lamerica di Amelio. Ma se lo stile di Ozpetek era più simbolico e melodrammatico, qui Giordana è più neorealista: c'è ancora l'acqua come simbolo di nuova nascita, ma anche di sopravvivenza, del rimanere a galla che qui è allo stesso tempo reale e metaforico, nella bellissima scena, girata a pelo d'acqua sotto la luce della luna, in cui Sandro cade dalla barca. Giordana continua a girare un cinema civile, che sa di vita vissuta, e anche se nella seconda parte il film prende soluzioni forzate e sbanda in alcune occasioni, il sottofinale è tremendo (ascoltare Un'emozione per sempre di Ramazzotti d'ora in poi sarà come ascoltare Singing in the Rain dopo aver visto Arancia Meccanica), e il finale non dà spiegazioni e soluzioni. Forse perché per problemi come l'immigrazione, e la prostituzione, davvero non ce ne sono.

Non sembra esserci via d'uscita neanche per i protagonisti del cinese Shanghai Dreams di Wang Xiaoshuai, che a Cannes ha vinto il Premio Speciale della Giuria. Due scarpette rosse, con il tacco. E anche piuttosto di cattivo gusto, come quelle di Non ti muovere. Ma per una ragazza della Cina nel 1983 sono molto importanti. Come per l'Italia di Non ti muovere rappresentano una vita migliore, il desiderio di sentirsi più affascinante, di staccarsi dal pattume circostante, il simbolo di un amore. Ma rosse non sono solo le scarpe: c'è anche la bandiera rossa della Cina comunista, dopo la morte di Mao, che ha mandato alcuni operai da Shanghai verso una zona depressa da colonizzare. I protagonisti vivono una realtà opprimente: così anche le scarpette rosse fanno subito una brutta fine, gettate via da un padre troppo protettivo nei confronti della figlia. Shanghai Dreams è una storia che potrebbe essere ambientata nel nostro Sud di qualche anno fa. I drammi familiari e amorosi di due ragazze si susseguono così nell'arco di due ore, probabilmente troppe, e probabilmente con troppa ripetitività. E soprattutto senza un'idea portante che giustifichi un certo interesse nel continuare a seguire il racconto. Che si dipana piuttosto incerto tra dramma e commedia (con dei momenti di ilarità suscitati da un Tony Manero dagli occhi a mandorla): nell'ultima mezz'ora capiremo che sarà dramma. Perché in un posto simile anche l'amore è un fiore destinato a non sbocciare, o a essere reciso, e diventare violenza. Il finale risolleva un film che, oltre ai difetti già accennati di ritmo e sceneggiatura, forse lascia la Storia con la S maiuscola troppo ai margini, integrandola poco con le vicende private. La Cina sembra divisa tra due tipi di produzioni: il film storico di denuncia e quello spettacolare. In pratica la differenza che passa tra lo Zhang Yimou di Lanterne Rosse e quello di Hero. Questo film appartiene al primo tipo, anche se potrebbe essere definito un film di "modernariato", visto che rivisita il passato recente invece che quello lontano.

Cupo e pessimista, ma soprattutto inutilmente provocatorio, anche Batalla en el cielo del messicano Carlos Reygadas, film scandalo annunciato della rassegna. E allora diciamo subito perché dovrebbe fare scandalo: il film si apre e si chiude con una fellatio, mostrata nei minimi particolari e da varie inquadrature, mostra delle scene di sesso tra anziani e obesi, e tra un anziano e una ragazza giovane e bella (la bella Anapola Mushkadiz, una presenza intrigante di cui sentiremo parlare). La storia ha a che fare con coscienza e senso di colpa, delitto e castigo: sappiamo che un anziano e stanco autista ha rapito un bambino che poi è morto (ma non vediamo nulla di tutto ciò). In preda ai sensi di colpa, si confida con la figlia del suo capo, giovane prostituta, che è anche la sua amante, e che finirà per uccidere, prima di suicidarsi. Il Messico negli ultimi anni ci aveva regalato un cineasta straordinario come Iñarritu. Lo stile di Reygadas è agli antipodi: macchina da presa ferma, lente carrellate orizzontali o verticali, con lo sguardo che indugia sugli attributi dei protagonisti, o su particolari insignificanti. Le nudità per nulla attraenti (è un eufemismo) dei protagonisti non sembrano mostrate per ispirare compassione, perché li spettacolarizzano facendoli diventare dei fenomeni da baraccone. Il sesso tanto ostentato non sembra inoltre essere collegato in alcun modo alla storia, e sembra essere solo un modo per scandalizzare, a maggior ragione se accostato a immagini sacre. Avrebbe potuto essere un film sulla lotta di classe (che è solo accennata), sul desiderio senile, ma finisce per diventare una pretenziosa via crucis sessual-esistenziale. Sia detto, il film è una via crucis anche per lo spettatore.

È una città senza speranza, anzi la città perduta per eccellenza, la Sin City di Frank Miller e Robert Rodriguez. Ancora un universo cupo e dolente, ma qui stilizzato, estetizzato e astratto come un fumetto noir, o un noir a fumetti, se preferite. Nelle tavole della bellissima graphic novel di Frank Miller (qui accreditato come co-regista) il nero avvolge i personaggi, li penetra e li rinchiude in un mondo in cui sembra non esserci salvezza. Il film ripropone non solo le atmosfere, ma i colori e gli sfondi delle tavole di Miller, realizzati al computer visualizzando perfettamente i suoi disegni, che diventano così un vero e proprio storyboard: il colore a volte irrompe sulla scena, ed è il rosso del sangue, o il giallo rancido di un personaggio. Rodriguez usa la struttura a incastri temporali di Pulp Fiction, con la scena in uno strip bar a fare da collante, illuminando i personaggi con delle luci "caravaggesche", che donano ai personaggi la classica divisione in luci e ombre dei fumetti. Le storie sono quelle, se vogliamo anche ripetitive, di un "duro" che vuole vendicare una prostituta, di una lotta tra prostitute combattenti e la polizia (corrotta, occorre dirlo?), e di un poliziotto che salva una bambina da un pedofilo e incontra entrambi dopo molti anni. Sin City è cinema che si avvita su se stesso, nel senso che prende spunto da un fumetto che a sua volta prende spunto dal noir anni Quaranta, che a sua volta aveva fatto la storia del cinema: illuminati e diretti a dovere Bruce Willis, Mickey Rourke (sfigurato sulla scena come lo è stato spesso nella vita) e Clive Owen diventano a loro volta icone, stereotipi, cloni del Marlowe di Bogart. Perché a Sin City i brutti/rovinati dalla vita sono i buoni, e i belli e giovani sono cattivi e corrotti, le pupe sono donne-soggetto combattenti, eredi di figure mitologiche come le valchirie e le amazzoni. Manicheo e laconico come il fumetto e il noir (di cui utilizza ad arte stilemi come il ralenti, la pioggia, il vento che alza i lunghi cappotti) Sin City, non uno dei tanti film tratti da un fumetto, ma un vero e proprio cross-over tra fumetto e cinema, parla anche del rapporto tra colpa e castigo: ognuno riceve la propria punizione, ma c'è anche chi si sacrifica per salvare gli innocenti.

E l'amore probabilmente è solo un sogno, o illusione. Come accade nel coreano A Bittersweet Life, presentato a Cannes fuori concorso, un altro film dalla violenza iperbolica, diretto dal regista dell'interessante horror Two Sisters, Kim Jee-Woon, il quale si dimostra bravissimo nel girare cinema di genere: qui affronta il gangster movie, che racconta la storia di un killer che per amore di una donna, giovane e bellissima, si mette contro il proprio capo. Adrenalinico e spietato, è una storia di vendetta come Old Boy, rispetto al quale risulta però più meccanico e basato su una violenza più "esteriore" e meno profonda. La cosa che stupisce è che in Corea anche un film di genere come questo sia basato su sentimenti e motivazioni molto forti e ben descritte: il killer protagonista è anche un eroe romantico. Così il film, con una scena di combattimento esemplare a base di tizzoni ardenti, si basa in realtà su un sogno d'amore. "Piangi perché hai fatto un brutto sogno? No, il sogno era bellissimo. Piango perché non si avvererà", ci racconta, sotto forma di una storiella, il protagonista.

A proposito di Corea: chi ha detto che i film di boxe li sanno fare solo gli americani? Ormai la Corea è terra di ottimi film di genere, anche quando non si tratta di capolavori come Old Boy e Ferro 3. Certo, Crying Fist di Ryoo Seung-Wan è un film medio, e niente di più, nonostante la presenza dell'indimenticabile Choi-Min Sik di Old Boy. In questo film è un ex pugile ridotto sul lastrico, medaglia d'argento ai giochi asiatici del '90, che per vivere è costretto a fare il punchin' ball umano: per qualche soldo si fa picchiare, per permettere alla gente di sfogare le proprie frustrazioni. La sua storia si incrocia con quella di un teppistello violento che comincia a boxare in galera: per entrambi il campionato dilettanti sarà l'occasione di riscatto, anche a livello familiare. Storia bella e ben raccontata, ma da un film coreano ci aspettavamo qualcosa di più: nonostante qualche sequenza sopra le righe, il film è la solita storia retorica di caduta e redenzione attraverso la boxe: un doppio Rocky in salsa coreana.

Ma usciamo per un attimo dai cieli oscuri che hanno contraddistinto fino ad ora il nostro percorso lungo la Croisette, e andiamo in mare aperto, sotto il cielo azzurro. Perché la Corea ci ha regalato soprattutto un nuovo film del suo grande maestro, Kim Ki-Duk. La storia che ci racconta in The Bow (L'arco), presentato al Certain Regard, è quella di un uomo anziano che vive su un barcone e tiene con sé una ragazzina, per sposarla quando avrà raggiunto la maggiore età. Per tenere lontani i malintenzionati usa il suo arco, che la sera fa anche risuonare di malinconiche melodie. Kim Ki-Duk si conferma poeta dell'isolamento: dopo L'isola, Primavera, Estate… e Ferro 3, ci parla ancora di personaggi lontani dal mondo, dalla realtà, il cui confronto è prima di tutto con se stessi. Cinema da training autogeno, com'è stato definito, il film di Kim Ki-Duk, che ormai ha un suo stile ben codificato, ci parla ancora senza le parole (i personaggi principali non parlano, come in Ferro 3), ma con espressioni sui volti dei suoi attori che dicono tutto. Ma il suo è soprattutto un cinema altamente metaforico: l'arco in fondo è un'estensione del nostro io, siamo noi. Sappiamo essere melodiosi per addolcire, sedurre, ed essere violenti e forti per difenderci. L'arco qui è il modo di comunicare con il mondo esterno, come lo era la mazza di Ferro 3. Ma The Bow ci parla anche del passaggio delle generazioni, del saper aspettare il proprio momento, il proprio turno. E probabilmente di mille altre cose, che potremo capire guardando e riguardando i suoi film, e guardando dentro di noi, come in una meditazione.

Nella rassegna milanese è passato anche un altro film dell'autore coreano, La samaritana, che viene dalla Berlinale 2004, ed è uscito da poco sui nostri schermi. Una storia, molto più cruda, e comunque particolarissima, di due amiche: una si prostituisce con leggerezza e gioia, ma muore per un incidente. L'amica decide di onorarla, restituendo i soldi, ma anche il piacere, ai suoi clienti, con un equilibrio che viene spezzato dal padre, che interverrà a fermare tutto. Diviso in tre capitoli che funzionano da tesi, antitesi e sintesi, il film tocca temi profondi come il peccato, la redenzione. La protagonista è quasi l'eroina de Le onde del destino, per come pensa di fare del bene prostituendosi; anche suo padre pensa di fare la cosa giusta, anche se arriverà a uccidere. Emblematica l'ultima sequenza, la più simbolica in un film che rispetto agli altri dell'autore usa uno stile più diretto e tagliente: il padre che insegna a guidare alla figlia, le traccia un percorso, per poi lasciarla andare da sola, nel mondo, dopo averle mostrato la via.

Poeta dell'isolamento Kim Ki-Duk, poeta dell'assenza Gus Van Sant: erano assenti i genitori dei ragazzi e le istituzioni in Elephant, era assente il resto del mondo in Gerry, era assente (cioè posseduto dalla madre) Norman Bates in Psycho; Last Days, storia sugli ultimi giorni di una rockstar ispirata a Kurt Cobain, è un film sul rock senza il rock, sulla droga senza la droga. Non c'è Courtney Love, colpevolmente assente, non ci sono i Nirvana, non c'è la loro musica; e forse non c'è neanche Cobain, c'è solo il suo corpo che vaga come un fantasma e di cui nessuno sembra curarsi.
Van Sant prosegue e porta qui all'estremo lo stile di Elephant, quello di un entomologo che scruta dall'esterno il comportamento dell'animale/essere umano, restando immobile a osservare i discorsi senza senso, le stesse azioni ripetute, come in un trip da droghe. Una normalità che in Elephant era il momento di calma prima della tempesta, e qui è la calma della devastazione dopo che la tempesta ha già fatto i suoi danni irreversibili e altri ne farà.

Un'altra storia americana, un'altra storia rock, ma di tutt'altro tipo e di tutt'altri toni. Torna ancora in America Wim Wenders, dopo Land Of Plenty e oltre venti anni dopo Paris Texas che gli valse la Palma D'Oro a Cannes. Don't Come Knocking, stranamente uno dei pochi film leggeri di Wenders, riprende uno dei grandi temi del cinema del momento: la rispettiva ricerca dei padri e dei figli, come abbiamo visto in Million Dollar Baby, Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa. Qui Sam Shepard, anche co-sceneggiatore, è un attore di film western in declino che all'improvviso scappa dal set per ritrovare la propria famiglia: la madre (una simpatica Eve Marie Saint, che era stata la biondina di Fronte del porto e Intrigo internazionale) e due figli che scoprirà di avere. Se la capacità di tenere le fila di un racconto è sempre la stessa dell'ultimo Wenders, cioè scarsa, il film ha qualche buona trovata, dei movimenti di macchina e una fotografia dai toni limpidi e brillanti, che danno al film un look iperrealista, che ricrea i quadri di Hopper. Ciò che affascina di Wenders è il suo modo di vedere l'America: da cinefilo che l'ha conosciuta attraverso i film, continua a rappresentarla per stereotipi (non si intenda il termine in senso negativo), simboli, icone: ci aveva già mostrato il Million Dollar Hotel e le Twin Towers di Land Of Plenty: qui l'America per lui è il western, i grandi Canyon e le sale da gioco alla Las Vegas, i quadri di Hopper, il whisky e il country-blues della straordinaria colonna sonora, curata dalla star del country T-Bone Burnett. Ed è straordinaria anche una Jessica Lange invecchiata ma vibrante e commovente.

Che lavoro fai? Lo scrittore? Sì, ma il tuo vero lavoro? Dite pure che fate il musicista, o qualsiasi altro lavoro con ambizioni artistiche, e la domanda che vi faranno sarà questa. Già, l'arte è una cosa dura: per sopravvivere tocca fare mille altre cose. Come tocca a Henry Chinaski, chiaro alter ego di Bukowski, autore del libro autobiografico da cui è tratto il film, Factotum, presentato alla Quinzaine: Henry è un factotum in quanto passa da un lavoro all'altro , rivelandosi soprattutto uno specialista nel perderli. Perché quasi sempre si ferma a bere un goccio, o due, o anche più, durante il lavoro. "Voglio questo assegno per uscire di qui e ubriacarmi. Può non piacervi, ma è la mia scelta." Henry Chinaski è il nostro eroe, perché non si adegua, e alla fine chi esce vincente e fiero di sé, di fronte a colletti bianchi inquadrati e esterrefatti, è lui. Opera seconda del norvegese Bent Hamer (Kitchen Stories), conferma lo stile alla Kaurismaki del regista, che ben si adatta a quest'opera. Il film, caratterizzato dalla voce off del protagonista, che ci regala massime sulla scrittura e sul processo creativo, è stralunato, ovattato e alienato come una giornata passata completamente sotto una sbornia. Le battute, tratte da Bukowski, sono spesso riuscite, e accanto a un Matt Dillon ingrassato e rubizzo ad arte, spiccano una Lili Taylor disfatta e una Marisa Tomei sexy e decadente, lontano dalla sua solita immagine acqua e sapone.

È mancato alla rassegna milanese Jim Jarmush, applauditissimo a Cannes col suo Broken Flowers. Il film georgiano Tbilisi Tbilisi di Levan Zakareishvili, visto alla Quinzaine, avrebbe potuto essere un curioso Jarmush dell'Est, un'altra storia ironica come Factotum, visto che all'inizio ci vengono presentati una serie di personaggi sghembi e stralunati: "beer and cigarettes" potrebbe essere il sottotitolo di questo film, il cui protagonista, alcolizzato e tabagista, gira per la capitale georgiana, diventata un enorme mercato: dalle sue foto, e dalle sue riprese, partono delle storie, che si innestano nel film, di un venditore, ex professore di sceneggiatura, e di un borseggiatore dalla sorella prostituta. Questi frammenti, girati in un buon bianco e nero, si accavallano senza alcun metodo da parte del regista, e senza alcun interesse da parte nostra.

A proposito di storie prive di interesse: da non confondere con Cachè di Haneke, arriva dalla Francia (Dio ci salvi dai francesi alla Quinzaine…) Cache cache di Yves Caumon (l'espressione equivale al nostro "bubu settete"), divertissement su un uomo che fa dei piccoli scherzi a una famiglia: è il figlio dei contadini che vivevano prima di loro nella casa di campagna, e continua a vivere là nascosto nel pozzo… Risate (isolate) in sala e maggioranza del pubblico impietrito davanti a una storia che si limita a inscenare la comparsa e scomparsa di vari oggetti, che i bambini buttano nel pozzo, credendo che ci sia un fantasma…

Ancora Francia, e stavolta va un po' meglio. Si sa quando si comincia, ma non si sa quando si finisce. È una delle massime dei lavori in casa: Travaux, commedia di Brigitte Rouan, proveniente dalla temibile Quinzaine, parte proprio da questa idea. Carole Bouquet è un avvocatessa dedita alle cause sociali, che decide di ristrutturare la casa. Per farlo si fa aiutare da molti immigrati clandestini: più che come lavoranti, la conquisteranno sul piano umano. Il film è chiaramente una metafora della Francia attuale: la casa di Carole Bouquet è come la nazione transalpina, piena di persone non ancora integrate, ma che tentano di dare comunque il loro meglio. "Dedicato a tutti quelli che hanno attraversato il mare per arricchirci" è la dedica esplicita alla fine del film. Messaggio nobile e lodevole, messinscena molto meno: imbarazzante a tratti, sfilacciato e senza una vera progressione drammaturgica, ha il respiro di un buon film tv e nulla di più. Da ricordare comunque la presenza di Aldo Maccione, già recuperato da Verdone una decina d'anni fa in Perdiamoci di vista, e il cammeo finale da principe azzurro di Hugh Grant, in un film che ricorda il meltin' pot de L'appartamento spagnolo.

Curiosa e raffinata, e anche intelligente (almeno in partenza) è la commedia (almeno in apparenza) Moustache. Marc è un uomo sposato che un bel giorno decide di tagliarsi i baffi. Attende con ansia la moglie per farle una sorpresa, ma lei sembra non accorgersi di niente. E non se ne accorgono nemmeno amici e colleghi. Il problema è che, secondo tutti, i baffi non li ha mai avuti. Per la prima ora il film scorre brillante e teso, grazie anche ai bravi Vincent Lindon e Emmanuelle Devos, scivolando da commedia a thriller dell'anima. Ma man mano che Marc comincia a girovagare senza meta, la sceneggiatura, e quindi il film, comincia a girovagare con lui, fino a perdersi. Non avremo risposte, almeno non soddisfacenti. È un peccato, perché era molto interessante questa storia pirandelliana su apparenza e essenza. Siamo quello che sentiamo di essere noi, o siamo come la gente ci vede? Chi siamo in realtà? E ancora, il film offre spunti sulla vita di coppia e sull'abitudine: vivendo accanto a una persona a lungo forse finiamo per non vederla più, per non accorgerci di lei? Così è, se vi pare.

Ma la Quinzaine ci ha regalato anche una bella sorpresa. È un documentario vero e proprio, dopo tanti film verità, il britannico Sisters In Law (titolo che gioca sul doppio senso "sorelle acquisite" e "sorelle davanti alla legge") di Kim Longinotto e Florence Ayisi. La forma è quanto di più semplice si possa trovare: una macchina da presa messa davanti ai fatti, che parlano da sé: casi di maltrattamenti di donne o bambini, persone indifese che fino a ora non avevano il coraggio di denunciare tali soprusi, perché credevano di non averne il diritto. Oltre che alla loro tenacia, il merito va a una pubblico ministero donna altrettanto decisa a far rispettare la legge. Che in questo caso vuol dire semplicemente rispettare l'umanità, la dignità, la vita. Il film è semplicissimo, diretto, efficace. È un raggio di sole, grazie al sorriso di donne fiere e creature impaurite finalmente liberate da un giogo avvilente. Donne che hanno capito l'importanza dell'istruzione (anche per imparare quali sono i propri diritti e che tali diritti esistono). È un raggio di sole perché i diritti vengono finalmente rispettati. Se in luoghi come il Camerun le cose possono cambiare, possono farlo anche altrove. Ma Sisters In Law è soprattutto un film universale, perché la protezione di donne e bambini ci riguarda tutti: queste cose succedono anche qui.

Delwende di Pierre Yameogo, film del Burkina Faso, proveniente da Un Certain Regard, è l'altra faccia di Sisters in Law: nel senso che è un'altra storia di sopraffazione, ignoranza, stupri. La protagonista, che potrebbe essere una delle assistite dall'avvocatessa di Sisters In Law, viene stuprata e data in moglie a uno sconosciuto, mentre la madre viene accusata di stregoneria e allontanata dal villaggio. Ci vorrà tutto il coraggio della giovane (un'altra donna che si ribella) per denunciare la cosa, e riportare la madre al villaggio. Delwende è un bel film, semplice e forte: ma acquista ancora più valore se accostato all'opera inglese: un documentario quella, un prodotto di fiction, ma con la freschezza della verità, questo. Ma, al di là della forma, i due film ci mostrano i due livelli in cui si trovano il Camerun e il Burkina Faso: la legge spesso riesce a salvare donne e bambini in Camerun, mentre in Burkina Faso regnano ancora la superstizione e la legge degli anziani. Fateci caso: l'unico savio nel villaggio è uno che ascolta la radio e ne sa più degli altri, ma viene considerato un matto e non verrebbe mai ascoltato da nessuno.

Tra i bonus regalati dalla rassegna, La piccola Lola di Bertrand Tavernier appartiene alla categoria dei film verità: due genitori vanno in Cambogia per adottare una piccola. Ma si troveranno a lottare con mille imprevisti, mille difficoltà burocratiche. Girato con stile asciutto, e una fotografia che privilegia i colori naturali del posto, è un film importante più per il messaggio che per lo stile. I due protagonisti ci fanno vivere con passione e partecipazione l'ansia di non riuscire a essere genitori.

Ed è una storia di inghippi e intralci burocratici anche La sposa siriana di Eran Riklis, l'altro extra regalatoci dalla rassegna proveniente dallo scorso festival di Locarno. Mona lascia il suo villaggio sulle alture del Golan (occupate dagli israeliani dal 1967) per sposarsi con Tallel, un attore siriano. Ma una volta passato il confine non potrà più tornare indietro: il giorno più bello sarà anche quello dell'addio ai suoi cari. Il film mescola il dramma socio-politico al folclore tipico del cinema di genere etno-matrimoniale già visto in Monsoon Wedding, Il mio grosso grasso matrimonio greco e in altri mille film: una torta nuziale di tensioni familiari e rancori nascosti decorati con personaggi buffi a dare colore.
Il film decolla però nel momento in cui, per un problema di visti, la sposa resta intrappolata tra i due stati, in una No Man's Land in cui non si va né avanti né indietro, sospesi in un limbo, impotenti e in attesa delle decisioni altrui (ricordate Terminal di Spielberg?). Allora il film da locale si fa globale, da particolare diventa universale, e simbolico, perché la sospensione, l'attesa, l'essere "stuck in a moment you can't get out of" forse riguarda ognuno di noi, prima o poi.

Più discutibili gli altri film che arrivano dalla Quinzaine, ancora storie di donne. Odete, del portoghese Joao Pedro Rodrigues, potrebbe chiamarsi anche "cercasi disperatamente Pedro". Pedro infatti è uno dei due ragazzi (l'altro è Rui) che vediamo baciarsi appassionatamente nelle prima inquadratura del film. Morirà poco dopo in un incidente stradale. Odete invece è una ragazza con un grande bisogno di diventare madre, appena lasciata dal suo ragazzo. Per caso entra nella camera ardente di Pedro, e vede Rui baciare la sua salma. Da quel momento prende l'anello di Pedro, e comincia lentamente a cambiare, fino a cercare di essere lui. "Cercasi disperatamente Pedro" dicevamo: per la trama, certo, ma anche perché il film è un chiaro tentativo di fare cinema alla Almodovar. Ma la caratteristica peculiare del regista spagnolo è riuscire a rendere toccanti e reali storie palesemente inverosimili, che in mano a chiunque altro sarebbero ridicole. Appunto. In Odete situazioni e reazioni sembrano sempre fasulle, stereotipate, già viste. I personaggi e i loro sentimenti non ci arrivano mai, e tutto sembra fatto apposta per provocare.

Julia, una donna sfruttata al lavoro e sempre più stanca, comincia a soffrire di forti emicranie, e a vedere una misteriosa stanza, per la precisione un loft, una casa senza pareti. Decide allora di partire per New York per cercare quella stanza, perdendosi tra mille disavventure. Storia di visioni tipicamente alla Lynch, autore che sulla stanza come metafora ha fondato la sua poetica, Room di Kyle Henry è girato in digitale e per buona parte dei suoi 76' tiene viva una buona suspense per poi perdersi nel nulla. La visione della stanza è probabilmente solo un anelito a cambiare vita. Room, oltre che stanza, significa spazio: è forse questo il bisogno che ha Julia, spazio. Come nell'enorme loft vuoto che vede.

Una donna va in Africa per mettere a punto un sistema di irrigazione, e lì scopre che una sua collega si è suicidata. È lo spunto da cui parte Guernsey, dell'olandese Leopold Nanouk. La professione della protagonista sarebbe in sé molto interessante, ma nel film non c'è traccia del suo lavoro. Ci sono invece le solite crisi coniugali e familiari, viste mille volte, e raccontate in maniera lenta e per niente originale. Il cinema di Nanouk è raffreddato e rallentato fino all'inverosimile. Hitchcock diceva che il cinema è la vita senza i tempi morti: Nanouk è riuscito nell'impresa di mettere in scena solo i tempi morti, senza la vita (come ha capito il pubblico, fuggito dalla sala).

Ma non pensate che sia finita qui. A terrorizzare gli spettatori di Cannes e dintorni è stato un thriller-horror australiano, presentato alla Quinzaine, Wolf Creek, di Greg McIean. Basato su una storia vera, è la vicenda di tre ragazzi che in vacanza in Australia si imbattono in un maniaco omicida. Data la trama, i riferimenti che vengono in mente sono Non aprite quella porta, dalla storia molto simile, e The Blair Witch Project, di cui il film utilizza alcuni espedienti, come la macchina a mano e il buio illuminato solo dalle luci di fari o torce. Ma man mano che il film procede, capiamo subito come sia più realistico e più incisivo di un normale horror americano. Macchine da presa addosso ai corpi, soggettive a mostrarci il punto di vista delle vittime, scene di tortura crude e crudeli, interrotte solo a tratti da momenti di beffarda (auto)ironia (si scherza su Mr. Crocodile Dundee e i luoghi comuni sugli australiani). E ancora il deserto, un luogo che rende ancora più difficile scappare, perché ci sei solo tu e il pericolo: Hitchcock (Intrigo Internazionale) docet. A Wolf Creek non ci si salva. E l'assassino e le sue vittime non sono stati mai trovati. Appunto: lasciate ogni speranza voi che entrate.

 


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