Perdere contro il Caimano PDF 
di Daniele Vecchio   

La storia - dopo un lungo gioco di attese, svelamenti e retroscena - è ormai nota. Silvio Orlando è Bruno, un produttore di vecchi B-movies in declino e in piena crisi coniugale, sul punto di separarsi dalla moglie (Margherita Buy). Un produttore di quelli atipici e inconsapevoli, alla Lucisano, supersdoganati e re(in)censiti da una critica voltagabbana, incarnata dall'esperto Tatti Sanguineti. Il fiore all'occhiello della sua filmografia è Cataratte, un horror politico in cui la moglie interpretava Aidra, un eroina che il giorno delle nozze infilza il marito (Paolo Sorrentino) con una bandiera rossa. Ma ci sono anche Mocassini assassini, Stivaloni porcelloni, e via delirando. Sul punto di fare un film su Cristoforo Colombo, poi abbandonato dal suo collaboratore (Giuliano Montaldo), Bruno legge Il Caimano, una sceneggiatura scritta da Teresa (Jasmine Trinca), una giovane regista coraggiosa, e - affascinato e turbato a suo modo - decide di farne un film. Si accorge troppo tardi ("Come ho fatto a non capirlo subito?") che il film ricostruisce la storia dell'ascesa di Berlusconi: è chiaro che nessuno vorrà produrlo, e infatti la Rai gli sbatte la porta in faccia. Con le sue vecchie conoscenze (un produttore polacco che gli finanziò Cataratte), Bruno mette su un cast e un piccolo budget. Deciso a finire il lavoro, ma senza più il sostegno del grande attore di sinistra (Michele Placido), che è anche un vizioso cialtrone e che, impaurito dalle conseguenze, abbandona il set, Bruno è in piena crisi lavorativa, sentimentale e personale. Dopo aver sorpreso la moglie con un altro e il suo ex-collaboratore girare sulla spiaggia di Ostia una superproduzione su Colombo con Placido protagonista, l'amarezza di Bruno giunge all'estremo. Capisce che il film è troppo importante e dev'essere fatto. Da qui il film si identifica col film nel film, con Il Caimano: protagonista, nei panni di Berlusconi, Nanni Moretti (già apparso una scena precedente, in cui aveva rifiutato l'invito di Bruno perché considerava il film troppo a rischio clichè). Nella sequenza si vede Berlusconi-Moretti processato e finalmente condannato, da un giudice (Sandro Petraglia) e un magistrato donna, una probabile Ilda Boccassini (Anna Bonaiuto), a sette anni di carcere. L'inquadratura finale è quella del Presidente che si allontana nella sua auto, mentre sullo sfondo i suoi sostenitori lanciano bottiglie incendiarie contro i giudici all'uscita dal tribunale.

Nella prima apparizione di Moretti nel film, il regista ironizza su sé stesso e La stanza del figlio, riprendendosi mentre canta gioioso, alla guida della sua auto, una vecchia canzone di Adamo. E alla proposta di Bruno e Teresa di interpretare un film su Berlusconi, risponde che è inutile perché è già stato detto tutto su Berlusconi e "chi vuole sapere sa, chi non vuole capire non vede". Aggiunge che Berlusconi ha già vinto: "ha già vinto vent'anni fa, con le televisioni…ci ha cambiato la testa". Basta per capire che Moretti non è Moore, tanto più che l'uscita del film a elezioni imminenti è poco più che un caso. Basta per capire che Moretti è essenzialmente un masochista (lo era nei toni anche quando criticava coi girotondi i leader della sinistra: "con questi non vinceremo mai"), che in realtà si autocondanna al "facciamoci del male". Moore, invece, da perfetto americano, aveva spostato il senso politico e civile della sua "battaglia documentatria" sul piano di un corpo a corpo col Presidente globale, una sfida all american che si fondava sui principi stessi della società dello spettacolo, perdendo. Insieme dimostrano soltanto che oggi l'arte come lotta politica influenzante è riservata ai ricchi, come Moore, e ai potenti, come Moretti, i soli che possono permettersi i film scomodi, i soli che possono inserirsi senza sostegni nel grande circuito occupando le sale, dettando i tempi dell'agenda politica e del dibattito. In un perfetto paradosso postmoderno, la denuncia di un sistema di potere economico e mediatico come morbo della democrazia ha bisogno, per essere praticata, di un'equivalente base di potere economico e mediatico.

Ma è una fortuna che Moretti dichiari subito la sconfitta collettiva contro il Caimano, perché in questo, oltre ad essere involontariamente masochista, è anche cosciente, realista, sincero. Eviterei pasoliniano, come si è detto da più parti, perché la denuncia di un ventennio che ha lasciato macerie culturali difficilissime da risanare non cambia la natura squisitamente borghese della visione morettiana della vita, della famiglia, perfino della cultura. Distante non solo da Pasolini, ma ad esempio dallo sguardo lucido e spietato sulla famiglia di un Bellocchio, autore già della sua generazione, Moretti è perfettamente integrato in un personalissimo e narcisistico, nevrotico e compiaciuto ritratto della borghesia romana. Sotto quest'aspetto il parallelo con Allen è preciso, basta sostituire "newyorkese" a "romana". Trasversalmente a questo, forse, si inserisce la risposta spesso nettamente divisa fra amore e odio da parte degli spettatori (o in altri casi di un sospeso conflitto di amore-odio). Qui c'è tutto il tempo per irritarsi dell'ossessione più che borghese per le piccole cose, dell'ansia per le partitelle al pallone del figlio, del litigio fra Teresa e la sua compagna su chi delle due è più materna, dei maglioncini regalati e strappati come supremo atto tragico. Tutti tic che - si sa - sono del vero Moretti, il quale non rinuncia mai a raccontare sé stesso e le sue ossessioni. Ma qui, nel carattere borghese, sta anche tutto il comunicare con il peggior cinema italiano del momento, coi Muccino, gli Ozptek, con lo sguardo ovattato e paratelevisivo che più critica il mondo esterno attraverso i drammi del privato più si mostra in realtà consustanziale ad esso, in una visione disperatamente velleitaria e autoindulgente (anche se Moretti è abbastanza furbo da far apparire nel film Sorrentino e Garrone, gli autori che più efficacemente lavorano su una realtà già post-berlusconiana).

Da questo punto di vista la discesa del cinema di Moretti inizia proprio col suo grande successo di critica, con Caro Diario e Aprile, che però vivono ancora di momenti semplicemente sublimi, per approdare allo scatto mancato di La stanza del figlio, film sottilmente kieslowskiano e kubrickiano, infinitamente pensato e limato (oltre che intensa riflessione estetica sui limiti del montaggio), che sembrava dover aprire una nuova stagione, soffrendo ancora di un compiacimento solo mascherato e di alcune carenze narrative. Rispetto a La stanza del figlio, Il Caimano ha il coraggio di recuperare una libertà stilistica che ne è l'antitesi, ma continua a misurarsi con lo stesso senso tragico, che era già del vecchio cinema di Moretti e dei suoi film migliori (Bianca, La messa è finita), tornando a rappresentare l'irriducibile dolore del conflitto fra Io e Mondo, fra le cose come vanno e come si vorrebbe che fossero, sul piano sia privato che ideologico e morale. In questo schema lo sport appare sempre come simbolo diretto, soprattutto in Palombella rossa dove la politica e il gioco erano accomunati nella serissima necessità di vincere; così anche ne La stanza del figlio, dove il padre psicoanalista inizia a preoccuparsi del figlio dal momento in cui lo vede giocare a tennis tanto per giocare, completamente indifferente alla sconfitta.

Ma Il Caimano è anche Sogni d'oro venticinque anni dopo, gioco sul cinema e nel cinema, sui film sognati e mai realizzati, sulle idee di film filmate mentre si realizzano. Da una parte c'è l'irrisione verso un recupero cinefilo esagitato e bulimico, dall'altra l'urgenza forse lungamente rimandata di misurarsi con la commedia italiana, tradizione un tempo aspramente osteggiata (chi non ricorda il divertentissimo dibattito acceso con Monicelli) e di contaminarla con l'alto esempio del cinema d'impegno trasfigurato dal genio profetico e grottesco di Petri. Moretti contestava a Sordi il fatto di rappresentare l'italiano medio (irresponsabile, vizioso e infantile) rendendolo al tempo stesso simpatico, mentre lui criticava i nobili e simpatici ragazzi della sinistra extraparlamentare, mostrandone tristezze e pochezze. Oggi è come se dicesse: se proprio si deve rivalutare il trash allora preferisco i film di Risi, a metà fra la tradizione e l'innovazione dei vari Rosi e Petri. Per questo l'idea de Il Caimano rimanda più a In nome del popolo italiano che allo stesso Il Portaborse, autocitato nella sovrapposizione col nemico, socialista o post-socialista. Ed è indicativo che la lezione mimetica e tutta di lotta politica di un maestro come Volontè, citato un paio di volte dal personaggio di Placido, sembra essere chiaramente omaggiata da un Moretti tutt'altro che esteriormente imitativo (a differenza del Berlusconi interpretato da Elio De Capitani), ma tutto teso a lacerarsi interiormente nell'identificazione: proprio le inquadrature finali, infatti, evocano fortemente il clima di Indagine e simili, anche con le musiche che Piersanti fa fluttuare fra Morricone e Piccioni. Ma più d'ogni altro Moretti omaggia Fellini, con un film simile anche a e che ne ripete addirittura il lancio pubblicitario tutto in segretezza: lo fa perché lo ama e forse anche perché Fellini è stato il primo e l'ultimo a rappresentare la deriva dell'immaginario berlusconizzato (Ginger e Fred, ma anche La voce della luna). Rimanda allora all'universo allegorico di Prova d'orchestra col muro abbattuto improvvisamente dalla scavatrice, ne evoca l'immaginario col fantasma dell'enorme caravella che percorre le strade di Roma, come un Leviatano che sfila silenziosamente accentrando lo sguardo sulla sua cupa grandezza e informando di sé l'intero sfondo urbano, una nave che è il simbolo smisurato del monolito-berlusconi, oggetto che proviene davvero dalla Luna, mistero impenetrabile che si riproduce nell'eterna domanda: "Da dove vengono tutti quei soldi?", una nave che è fatta della stessa sostanza della valigia che sfonda il soffitto nei sogni di Bruno.

 

Ma è chiaro che Moretti, con egregio dolore, vuol far sapere che abbiamo perso, che è mancato il gioco di squadra. Denunciare questa perdita, solo apparentemente pessimista, si pone come estremo segno dei tempi: un moralista come Moretti, un borghese come Moretti, uno sportivo testardo come Moretti soccombe alla voragine di senso del Caimano. Che, tutto contento, si fa carico del titolo come l'ultimo gioiello della sua collezione di soprannomi, annunciando in un convegno a Napoli: "Signori, io sono il Caimano". E, ultimo paradosso, il Caimano, mentre si accinge a perdere, urla perché non accetta la sconfitta, per lui è un gioco maledettamente serio. E allora si comprende meglio la scelta di Moretti di calarsi nei suoi panni, di misurarsi col suo mostruoso doppio, di superare la comoda idiosincrasia del distacco mettendo in gioco se stesso, davvero con lo stesso principio con cui Welles si appropriò personalmente di William Randolph Hearst, facendolo suo e quindi distruggendolo. L'unico modo per sconfiggere il Caimano è esorcizzarlo in un atto di possessione, prendendo il suo posto e pensando come lui. È una piccola rivincita che ha il sapore della sfida e della catarsi.

Intanto, nel pantano di quelli che abbiamo definito piccoli vezzi borghesi, ancora una volta Moretti riesce a salvarsi, grazie ai brevi momenti che risaltano su tutto e si fanno sentire: è la ricerca ossessiva del pezzetto di Lego senza il quale non si può essere felici, piccolo e squisito monolito che si contrappone, con forza amorosa, all'odioso e asfissiante monolito dell'enorme valigia piena di soldi.

 


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