La sottile linea rossa PDF 
Marco Doddis   

È Guadalcanal, ma potrebbe essere tranquillamente Iwo Jima o Okinawa. È il 1942, ma potremmo trasporre il tutto nel 1842 o nel 2042. La sottile linea rossa fissa dei paletti, delle coordinate spazio-temporali, ma lo fa al solo scopo di metterle in discussione. La pellicola, la terza di Terrence Malick, si contraddistingue sin dalle prime battute per una marcata metastoricità. Il regista, qui anche sceneggiatore, ha volutamente mischiato le carte in tavola per regalare al suo spettatore non un film di guerra, né tantomeno un documento sulla celebre battaglia di Guadalcanal; piuttosto, ha dipinto un affresco dalle tinte forti sulla natura umana. Un affresco che, a più di dieci anni di distanza, si è impresso nella dimensione della classicità.

Un paio di giovani americani passa le giornate su un’isola da sogno in compagnia degli indigeni. Si capisce che si tratta di soldati: soldati disertori, per la precisione. I due vengono ritrovati da una nave vedetta e ributtati nella mischia. In particolare, il soldato Witt (un Jim Caveziel pre-Gesù ma già in connessione con “l’altro mondo”) riesce ad evitare la Corte Marziale grazie al sergente maggiore Welsh (Sean Penn), che lo manda in prima linea come barelliere. Di lui, e di altri come lui, c’è bisogno come il pane: l’assalto alla roccia – così il Generale John Travolta chiama la collina di Guadalcanal – è una carneficina. La missione della compagnia Charlie, sbaragliare un campo di aviazione giapponese, non può essere portata a termine in tempi rapidi (“Entro il tramonto”, ripete ossessivamente il colonnello Nick Nolte). Solo dopo un cambiamento di strategia, le sorti della battaglia sorridono agli americani, che, al prezzo di centinaia di morti, piantano la bandiera sull’isola.

Ispirato all’omonimo romanzo di James Jones e preceduto da una decennale gestazione, La sottile linea rossa è uno di quei film che non fanno fatica a scolpirsi nella memoria collettiva. Era un caso già all’epoca della sua uscita, nel 1999 (negli Stati Uniti uscì alla fine del 1998), quando ci si trovò a discutere su una truppa di star agli ordini di un regista bravo, ma poco più che esordiente. Certo, Malick aveva già in bacheca un premio per la regia a Cannes, ma si trattava di un riconoscimento risalente a vent’anni prima. La latitanza dalle scene dell’ex professore di filosofia aveva contribuito a creare intorno al suo nome un alone di carisma messianico che si manifestò anche durante la lavorazione del film. Molti divi lavorarono per compensi lontani dollari luce dai loro abituali cachets. Qualcuno fece brevi comparsate (Clooney, Travolta), qualcuno fu addirittura tagliato in fase di montaggio (Mickey Rourke, Martin Sheen, Viggo Mortensen). Agli altri (Caviezel, Penn, Nolte, Brody, Harrelson, Koteas, Cusack) toccarono ruoli più importanti, ma nessuno fu fondamentale. Nella storia del cinema è difficile scovare un’analoga messe di stelle, disposte, all’occorrenza, a recitare da comprimarie. L’unico precedente di questo genere rimane Il giorno più lungo, anche se in quel film era evidente l’intenzione di organizzare un’ammucchiata divistica anche a fini promozionali.

Con Malick, invece, siamo in tutt’altri lidi. I divi ci sono, ma non si vedono. I loro volti vengono trasfigurati in una dimensione universale: potrebbero essere i nostri padri, i nostri nonni, i nostri figli, impegnati a combattere una guerra folle. Come tutte le guerre. Ora, la forza e, per certi versi, l’originalità dell’opera di Malick stanno nel non cadere mai nel logico corollario di queste premesse: impacchettare un apologo sul pacifismo. Invece, questo non è un film di guerra, né un film contro la guerra in senso stretto. La sottile linea rossa del titolo è un filo che si stende per tutta la storia dell’uomo, il confine tra follia e ragione, il limite tra Natura e Cultura. Un tema così delicato, proprio perché potenzialmente onnicomprensivo, richiede un trattamento sapiente, figlio di una sensibilità profonda e di una mano cinematograficamente sicura. “Perché la natura lotta contro sé stessa? Perché la terra lotta contro il mare?”. Il soldato Witt, alle cui soffuse riflessioni è affidato il compito di dare la stura alla narrazione, si fa latore della filosofia e della poetica di Malick. L’autore mette subito in chiaro l’argomento che vuole affrontare e i mezzi con cui si propone di farlo. Sembra dirci che la protagonista delle quasi tre ore di pellicola sarà la Natura, intesa in senso panico, arcadico. Su di lei non verrà dato un giudizio, ma le si porranno delle domande dalla dimensione ancestrale, affidandosi ai pensieri di un gruppo di soldati. Il procedimento narrativo consiste nell’accumulo litanico di voci fuori campo (strumento già collaudato da Malick nelle opere precedenti), a cui viene accostato un controcanto audiovisivo: a mano a mano scopriamo che le immagini di John Toll e i suoni di Hans Zimmer costituiscono la risposte ai dubbi e alle paure dei soldati. Sia chiaro: non si tratta di risposte universali; ognuno vi legge la sua. Finita la battaglia, infatti, Witt pensa: “Un uomo guarda un uccello morente e pensa che la vita non sia altro che dolore senza risposta, ma è la morte che ha l’ultima parola: ride di lui. Un altro uomo vede lo stesso uccello e sente la gloria, sente nascere la gioia eterna dentro di sé”.

In questa continua ricerca del senso, che si accompagna al pensiero di una morte in agguato, i soldati del film ricordano i personaggi omerici (al mondo greco c’è più di un riferimento nel corso della storia). Mentre la Natura ne osserva i travagli, ognuno di essi cerca un appiglio consolatorio, spesso  frustrato. C’è chi, come Witt, non ha più paura della morte (la vuole vedere in faccia) e crede in un altro mondo perché dice di averlo visto; tuttavia, trova nel sergente Welsh una disillusa nemesi. C’è chi, come il colonnello Toll, crede nella guerra e ne vede un veicolo per raggiungere gloria e successo; tuttavia, trova nel capitano Staros un esempio di umanesimo “alla greca” che rifiuta la logica del massacro. C’è chi, infine, si rifugia nell’amore come consolazione alle sofferenze, “al sangue, al rumore e allo schifo”, ma ne ottiene una tremenda delusione: è il caso del soldato Bell (Ben Chaplin), abbandonato dalla moglie, sua unica ragione di vita. Insomma, pare un pellegrinaggio collettivo alla ricerca della verità, un cammino sospeso tra Natura e Cultura in cui è facile inciampare. Malick rimane sospeso sulla linea rossa. Il suo lirismo è ammirevole anche se, a tratti, forse eccessivo. Alla fine, rimane nelle orecchie una sinfonia impeccabile, senza stecche, ma prigioniera qua e là di monotonia e lunghezza.

TITOLO ORIGINALE: The Thin Red Line; REGIA: Terrence Malick; SCENEGGIATURA: Terrence Malick; FOTOGRAFIA: John Toll; MONTAGGIO: Leslie Jones, Saar Klein, Billy Weber; MUSICA: Hans Zimmer; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1998; DURATA: 170 min.

 


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