Femminile e dintorni: Alina Marazzi PDF 
Elisa Cuter   

Dopo l'esordio con Un'ora sola ti vorrei (2002), che ripercorre la vita della madre morta suicida, Per sempre (2005), dedicato alla vita monastica, e Vogliamo anche le rose (2007), viaggio molto personale nel femminismo italiano degli anni '70, Alina Marazzi prosegue il suo discorso sul femminile, questa volta affrontando, con Tutto parla di te, il tema della depressione post partum. Un film coraggioso, sia nel contenuto che nella forma, un'occasione per riflettere sull'arretratezza dell'Italia nel far fronte alle problematiche riguardanti la maternità, ma anche su una certa incapacità dell'ambiente cinematografico del nostro paese di comprendere le scelte narrative inconsuete e innovative che caratterizzano lo stile della regista.

Se già con Vogliamo anche le rose ti confrontavi con un'ibridazione fra documentario e narrazione in prima persona, la commistione di diversi linguaggi (animazione, found footage, interviste, documentario, fotografia, fiction) è più evidente che mai in Tutto parla di te. Come è nata l'esigenza di inserire anche la finzione più tradizionale nel tuo progetto?
Da un lato si è trattato di un'esigenza produttiva. Quando fai documentari la domanda che spesso ti viene rivolta è: “Ma allora, quand'è che fai un film?”, come se i film precedenti, nonostante siano usciti al cinema e abbiano ricevuto apprezzamenti da parte della critica, non fossero film “veri”. Dall'altro, avevo iniziato a fare ricerche sulla negligenza materna e sugli aspetti ombrosi della maternità e ad un certo punto mi è sembrato difficile pensare di usare il linguaggio del documentario. Il documentario avrebbe posto dei limiti e ovviamente anche fare un film di montaggio o di repertorio non sarebbe stato possibile: si è imposta così la questione della messa in scena. Il progetto ha avuto una gestazione lunga, ma dopo l'idea iniziale di lavorare su aspetti più estremi (mamme assassine, infanticidi...) mi sono spostata più su un tema di ordinaria depressione. Mi è sembrato difficile quindi descrivere questi sentimenti in bilico, un po' indefiniti, con un linguaggio che spesso si basa comunque sulla parola. E quindi ho scelto di dare spazio a un racconto soggettivo, scarnificato dalla parola.

È stato più facile o più difficile, in termini di libertà artistica, utilizzare la finzione e confrontarsi con il lavoro degli attori?
È stato molto più difficile utilizzare la finzione. Non tanto per quello che gli attori avrebbero potuto apportare o modificare, ma è stato molto frustrante perché la finzione in qualche modo richiede di rientrare dentro a certi parametri, certi schemi. Il discorso produttivo è sempre molto complicato, perché gli interlocutori, cioè le commissioni che valutano se i progetti sono degni di finanziamento, sono abituati a leggere sceneggiature di finzione pura, e quindi se una sceneggiatura non corrisponde a certi parametri viene automaticamente valutata in maniera critica e spesso negativa. Già nella scrittura era presente questo mix di linguaggi, cosa che ha reso complicata sia la fase di scrittura che, secondariamente, riuscire a fare passare il film in produzione. Lavorare con gli attori, invece, non è stato affatto difficile, anche perché c'è stato un lungo tempo di preparazione prima di arrivare alle riprese. Ho lavorato a lungo con Elena Radonicich per quanto riguarda la questione del corpo e della danza, facendola lavorare con una compagnia di teatro-danza e fornendole lo stesso materiale che avevo letto io, facendole vedere le interviste fatte alle mamme, eccetera ... e del resto con la Rampling c'è stato un lungo lavoro sulla lingua italiana.

Hai scelto Charlotte Rampling pensando anche ai personaggi spesso conturbanti e molto poco “materni” che ha interpretato nella sua carriera?
C'è stato un momento in cui è saltata fuori la possibilità di una co-produzione con la Francia, partner francesi avevano chiesto di coinvolgere un'attrice francese o internazionale per facilitare il reperimento fondi. Poi non è stato così, quindi in realtà la Rampling non ha apportato niente da un punto di vista produttivo, anche se il contatto è avvenuto in quella fase. Il fatto è che in fase di scrittura, mentre pensavamo questo personaggio di donna matura, ci siamo resi conto dell'assenza di attrici adatte in Italia. Le donne di quell'età sono molto poco rappresentate nel nostro cinema, ci sono magari attrici come Ilaria Occhini o Virna Lisi, che sono già però più nella fase “nonne”. Quella fase di mezzo, la maturità, è praticamente nascosta e credo che questo ponga alle attrici italiane un problema di visibilità, è difficile trovare un volto vero in Italia proprio per questa pressione che costringe attrici di una certa età a ricorrere a interventi estetici. Charlotte Rampling ha risposto a questa esigenza. Inoltre, Pauline è un personaggio che nasconde un segreto, quindi non ero alla ricerca di una figura materna, ma di un personaggio più complesso, che aveva rifiutato la possibilità della maternità.

Il materiale di repertorio è una costante nei tuoi film. In Tutto parla di te arrivi a crearne di “falso”, a inserire delle scene in Super8 in realtà girate da te...
Nel film c'è questa linea del ricordo, della memoria, che in maniera classica, pensata già in fase di sceneggiatura, interviene grazie al materiale d'archivio. Parte di questo materiale è stato trovato grazie alle ricerche che ho effettuato a Home Movies a Bologna, cercando alcune cose specifiche. È stato anche quello un procedimento di ricerca diverso da quello che ho fatto per gli altri film: cercando sono venute fuori ovviamente altre immagini, ma c'era per esempio questo elemento del lago, dell'acqua, nella mia idea iniziale, e quindi sono andata a cercare immagini di laghi, case in riva al lago e così via, e poi di bambini. È stata fatta una ricerca mirata, e poi appunto in fase di montaggio, successivamente, si è sentita l'esigenza anche con Ilaria Fraioli, la montatrice, di illustrare questa scatola che Pauline ritrova in casa e che rappresenta il passato. Così ho girato in Super8 le scene di queste mani che aprono e chiudono la scatola che dovrebbero essere quelle della madre di Pauline. La stessa idea di creare un falso repertorio è stata utilizzata anche nell'intervista a Emma/Elena, per cercare di creare un cortocircuito, un collegamento, utilizzando quel dispositivo, tra la finzione e la realtà. Quindi creare un'ambiguità, nel caso di Emma, perché si potrebbe pensare all'inizio che lei sia una madre vera, e questo consente anche allo spettatore di metterla più in relazione alle altre donne che parlano nelle altre interviste.

I luoghi, come la casa sul lago che citi, sono presenze sempre molto importanti nei tuoi film. Cosa rappresentano e come è stato per te girare a Torino?
Le case, le scatole, gli armadi... insomma gli oggetti e i luoghi hanno una presenza forte nei miei film. Ricollegano sempre i personaggi con il loro passato, un passato da cui magari i personaggi (o le persone) hanno voluto affrancarsi ma con i quali prima o poi bisogna fare i conti. Tutti i film guardano indietro per andare avanti. Inizialmente c'era l'idea di una casa al lago, un po' cinematografica, che io già conoscevo sul lago di Mergozzo, vicino al Lago Maggiore. Si tratta della casa di una persona che conosco, una casa a cui mi ero ispirata nella scrittura, proprio perché è una di quelle case piena di cimeli, scale, stanze... Il film era stato poi scritto pensando a una città del nord, diciamo a Milano, visto che io vivo lì, poi è stata fatta una prima giornata di location scouting con la Film Commission Piemonte, che mi aveva invitato a considerare di girare parte del film da loro, visto che queste casa al lago era comunque situata in Piemonte, quindi abbiamo trovato quasi subito dei luoghi che erano molto appropriati, come la Casa del Quartiere di San Salvario, che è stata subito una felice sorpresa. E poi la casa di Pauline, sulla collina dei Cappuccini, quindi in città ma anche un po' sospesa, poi l'elemento dell'acqua, del fiume, è stato determinante: Torino ha offerto tanti elementi funzionali. Ho riscritto poi la sceneggiatura in funzione di questi luoghi reali, mi piaceva l'idea di andare a girare in un luogo reale.

Sapresti indicare dei modelli che hanno influenzato il tuo modo di fare film?
Francamente no. Mi è difficile trovare dei maestri, perché non ce ne sono, ci sono stati dei film che mi hanno formata maggiormente, ad esempio esempi di documentario d'autore, di documentario in prima persona, i film di Johan van der Keuken, ad esempio. Però poi penso anche all'influenza che hanno avuto su di me i film di Maya Deren, che sono l'opposto, quindi l'aspetto più simbolico, evocativo che c'è nei miei film si riferisce più al cinema d'avanguardia che è stato parte del mio background.

Passando all'aspetto più tematico, si tratta di un film che si concentra soprattutto sugli aspetti negativi della maternità. Ci sono però dei momenti in cui emerge un messaggio positivo, che è quello dell'importanza della distanza nelle relazioni, non solo quella tra madre e figlio. Sembri sostenere che l'accettazione e l'amore passano attraverso il riconoscimento dell'altro in quanto tale, in quanto altro da sé.
Si tratta di un aspetto fondamentale nelle relazioni, ma che è molto raro si verifichi. Anche traducendo questa dinamica relazionale in altre situazioni: mi riferisco, per esempio, alla violenza domestica sulla donna. Ma del resto tutti i casi di cronaca o comunque tutte le relazioni patologiche, di mamme con bambini come tra adulti, ci dicono che si tratta di relazioni simbiotiche che poi producono trascuratezza, negligenza, nell'accudimento reale ma anche nell'accudimento della relazione. Tante persone con cui ho parlato che si occupano di maternità sostengono che tante problematiche derivano proprio da questa difficoltà di separarsi e da questa angoscia profondissima che si può provare nel momento in cui avverti la responsabilità che hai di prenderti cura di un altro essere umano. È una cosa molto potente e che spesso viene sottovalutata. Poi i problemi possono essere molto reali, sociali, di servizi che mancano, aiuti che non arrivano, ma l'arrivo di un figlio è veramente qualche cosa che fa emergere così tante questioni profonde ed esistenziali che una persona, da sola, fa inevitabilmente fatica ad affrontare.

Insisti molto nel film sui rapporti extrafamigliari, non solo quello tra Pauline e Emma, ma anche tra Emma e Valerio, il capo della compagnia di danza. Senza voler ridurre il tuo film a cinema di denuncia, si può interpretare questo aspetto come un appello a una società più coesa e solidale?
Sappiamo che nella famiglia avvengono le peggiori efferatezze e che purtroppo l'ambivalenza non riguarda solo madri e bambini piccoli ma, più i figli crescono, anche questi verso i genitori. Evidentemente sono rapporti molto complessi. Invece il senso di sorellanza (se tra donne), di comunità, il dare valore alle relazioni, traducendo il concetto di maternità come presa in cura dell'altro anche al di fuori della dinamica della coppia, della famiglia, è qualcosa di  molto auspicabile. Qualcosa che bisognerebbe imparare e che però non è molto diffuso. In Italia forse ancora meno, perché il concetto di famiglia è ancora molto forte, ci si difende sempre dietro a questa cosa della famiglia mentre bisognerebbe cercare di fare aprire le famiglie, fare entrare nella famiglia anche altre figure. Per esempio molto interessante adesso in Italia è questo fenomeno delle doule, che non sono delle ostetriche, quindi non sono delle donne che hanno una professionalità specifica riguardo alla maternità, sono come delle madri putative che accompagnano la donna durante la gravidanza e dopo il parto, sono come delle madri tribali. Questa figura in Francia esiste un po' di più, a Bologna quando abbiamo presentato il film è venuta una doula con la mamma che aveva seguito e ci ha parlato di questo che è un rapporto tra due donne di due generazioni diverse, un po' come il classico rapporto madre/figlia ma non inquinato dalle tipiche dinamiche contorte che questo rapporto si porta dietro nella sua versione tradizionale. Un rapporto che riesce a lavorare sull'empatia, sull'affettività.

Si avverte però in questo discorso, come nel film, l'assenza degli uomini. Il senso di abbandono provato da tante donne non riguarda forse anche il fatto che continuiamo a rappresentare l'accudimento (del bambino come della mamma, in questo caso) come una faccenda esclusivamente femminile?
È vero, purtroppo si replicano questi modelli, maschile e femminile, in relazione alla nascita. Nelle coppie si nota quando nasce un bambino questo automatico ritorno a “chi fa cosa”. Per le prima settimane o per i primi mesi può essere necessario perché il bambino viene allattato, vive in un tempo che è sincronico con quello della madre, però le fasi successive richiederebbero una maggiore partecipazione da parte dell'uomo. A volte questo non è possibile, anche per motivi pratici: per esempio il congedo parentale per il marito è molto penalizzato, soprattutto in Italia. Quindi, se quel tempo non ce l'hai, come fai a reinventarti, a rieducarti a questo nuovo ruolo di padre? E poi è un problema di tipo culturale, anche gli uomini giovani (sempre meno, per fortuna) vengono educati con questa idea che comunque è la madre che si occupa di quegli aspetti, e quindi ci sono compagni che hanno le migliori intenzioni ma che sono stati allevati con una certa idea, cosa che rende tutto molto più complesso. Il mio interesse per il femminile e la mia scelta di concentrarmi su questi rapporti tra donne però nasce forse anche da motivi biografici. Sono cresciuta con un fratello maschio e con mio padre, ho avvertito l'assenza di modelli femminili forti vicini anche perché si cresce in una società in cui il modello a cui aspiriamo anche noi donne è comunque quello maschile.

Ti definisci femminista? Che rapporto hai con i nuovi movimenti sorti in Italia proprio poco dopo l'uscita di Vogliamo anche le rose, che ha in qualche modo precorso questo ritorno alle tematiche femministe?
Non mi definisco femminista, anche se questi lavori lo sono da un certo punto di vista. In un modo non urlato e non ideologico, vanno però a indagare quelli che sono i rapporti tra donne, le tematiche femminili, quindi diciamo per formazione non lo sono e però mi interessa gravitare attorno a questi modelli, a questi temi. Per quanto riguarda i movimenti italiani, credo ci fosse un'esigenza di tornare a parlare di queste questioni nella società e perciò anche in me, ma non ho dei rapporti col movimento, anche se spesso i miei film sono mostrati in centri e luoghi del dibattito femminista e utilizzati anche come testi da cui partire per riflettere su certi temi.

Hai affermato di aver incontrato una certa chiusura in alcuni ambienti “vetero-femministi”. Hai avuto la stessa sensazione per quanto riguarda certi ambienti cinematografici in cui predomina la stessa generazione e lo stesso approccio?
In certi contesti mi sento presa sul serio, ma vengo comunque chiamata per nome e non per cognome, non mi si da del lei. È un modo affettuoso di rivolgersi a una persona ma chiaramente anche un po' sminuente... Ho notato soprattutto che la critica cinematografica, quella delle firme dei quotidiani, che si limita, anche per motivi di spazio a stabilire se il film è riuscito o meno senza grandi argomentazioni, è incapace di instaurare un rapporto dialettico con gli autori. Un rapporto, quello tra autori e critici, che non esiste. O meglio, inizia adesso a nascere con le nuove generazioni di critici anche perché spesso ormai chi fa cinema o documentari poi scrive anche, magari on line. Ma parlando di Critica, quella considerata con la c maiuscola, che poi è tutta esclusivamente maschile, questo film è stato non solo ignorato, ma soprattutto non è stato fatto lo sforzo di capire il tentativo di utilizzare questo linguaggio. Questa cosa, riflettevamo anche con Dario (Zonta, critico de l'Unità e compagno della regista, co-sceneggiatore con lei di Tutto parla di te n.d.r.) è molto deludente, perché la critica dovrebbe servire anche agli autori a riflettere sul proprio lavoro, e questa cosa non esiste, se non a livello del web. Non a caso c'è un'enorme differenza tra come è stato accolto questo film su internet e sulla carta stampata: chi ha scritto sui siti si è preso anche lo spazio per argomentare una riflessione (positiva o meno). Invece la critica ufficiale è stata spesso solo comparativa con Un'ora sola ti vorrei: “quello era un capolavoro, questo no”. A questo va aggiunto anche il problema dell'aspettativa. Se ha un esordio particolare, all'autore poi viene chiesto di replicare sempre se stesso. Pensiamo a Garrone: secondo tanti Gomorra era un capolavoro, Reality no (mentre io trovo fosse molto più personale, più libero, più toccante). Critiche superficiali, semplicistiche. E la critica sulla carta stampata ha un potere che non è tanto sul pubblico, è importante per la distribuzione e gli esercenti. È da lì che decidono quante copie stampare, mentre il pubblico è molto più libero, indipendente, si informa in modo diverso.

A proposito del web, è stato utile anche in fase di ideazione confrontarsi con quello che è stato uno dei primi luoghi pubblici, attraverso i blog, in cui si è trattato esplicitamente il tema del baby blues?
L'attività molto forte di mommy-blogging è una forma che si rifà all'utilizzo del diario, quindi una primissima fase del lavoro era nata proprio con un blog per raccogliere storie dal web. Una volta ad esempio ho fatto una chat-live, c'erano una ventina di mamme collegate, da Palermo a Belluno, alle dieci di sera, quando tutte avevano messo a letto i bambini, con qualcuna che si assentava dicendo “oh no, si è svegliato!” mentre io parlavo un po' del film. La sensazione di riuscire a intercettare il desiderio di raccontarsi delle madri che sono chiuse in casa da sole è stata emozionante.

 


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