TFF 28/Rapporto Confidenziale PDF 
Amon Rapp   

Il Torino Film Festival dedica quest’anno la sezione “Rapporto Confidenziale” al nuovo cinema horror, regalando al pubblico di Torino una selezione di film inediti di giovani cineasti, senza disdegnare la presenza di indiscussi maestri del genere e di registi di consolidata esperienza. Se 5 delle 9 pellicole presentate sono infatti opere prime o seconde, le restanti chiamano in causa autori del calibro di Jee-woon Kim, Brad Anderson e John Carpenter.

Tra le opere prime, Altitude di Kaare Andrews è un piccolo omaggio ai fumetti americani della Ec Comics degli anni Cinquanta. Il viaggio in aereo di cinque studenti si tramuta in un incubo claustrofobico ad alta quota: inquietanti presenze emergono dal passato e un tragico epilogo sembra destinato a ripetersi a distanza di anni. La vicenda narrata attinge in realtà a piene mani dal racconto breve Nightmare at 20.000 feet di Richard Matheson, già adattato per lo schermo televisivo in un episodio della serie The Twilight Zone, e successivamente ripreso da George Miller nell’omonimo film ispirato a questa serie cult degli anni Sessanta. Andrews, tuttavia, non si limita a girare l’ennesimo remake, ma riesce sapientemente ad innovare la struttura del racconto contaminandola con i cliché tipici dei college horror movies. Con una trama (quasi) perfettamente circolare, che si riavvolge su stessa nel finale, il film ha il pregio di richiamare alla memoria anche i piccoli classici del terrore pubblicati su Tales From The Crypt, Vault Of Horror e The Haunt Of Fear. Quello che gli si può rimproverare sono forse l’eccessiva serietà dello sguardo e le troppe concessioni ad un marcato sentimentalismo, elementi del tutto assenti nelle sovracitate pubblicazioni, che anzi si distinguevano per l’assenza di qualsivoglia lieto fine e per la caustica ironia che condannava fin dalle prime pagine i protagonisti delle proprie storie ad un infausto e beffardo destino.

Colm McCarthy con Outcast adotta invece un registro realistico, immergendosi nei quartieri popolari della periferia di Edimburgo, tra il cemento e l’acciaio di una città in decadenza. Sotto un cielo perennemente plumbeo, una congregazione segreta è sulle tracce di una strega e del suo giovane figlio, frutto di una relazione proibita e condannato a portare il marchio del mostro. Tra paesaggi urbani notturni, spazi desolati e vicoli maleodoranti, la caccia si fa sempre più sanguinaria e serrata: metamorfosi del corpo, riti atavici, amori impossibili e combattimenti efferati si intrecciano in una trama originale, ma non per questo sempre convincente. L’horror si tramuta in noir metropolitano, in ricognizione sociale degli ambienti proletari, ma i personaggi che abitano il racconto sono mossi da pulsioni troppo elementari, incapaci di manifestare emozioni complesse e pertanto difficilmente credibili. 

Se assolutamente deludente si rivela Damned by Dawn di Brett Anstey, carico di effetti digitali che palesano un manifesto artificio e sofferente di una scrittura spesso lacunosa e superficiale, grande sorpresa riservano invece i musical-horror Suck di Rob Stefaniuk e The Legend of Beaver Dam di Jerome Sable. Il secondo è un dinamico divertissement attorno agli slasher movies della durata di soli 8 minuti, ma perfettamente bilanciato nell’alternarsi di racconto e musica. Suck è invece una godibilissima vampire story ambientata nel mondo del rock, che mescola acutamente horror e commedia senza scivolare nella parodia.

Proiettato al festival di Torino con un solo giorno d’anticipo rispetto all’uscita italiana in sala, The Last Exorcism sfalda i confini tra realtà e finzione sia sul piano della forma che su quello della storia: se da un lato lo stile della messa in scena richiama i mockumentary alla Blair Witch Project, con un costante uso della camera a mano che innerva le inquadrature di spasmi repentini e di frenetici sussulti, dall’altro sono gli stessi protagonisti della vicenda narrata ad essere presi all’interno di una spirale in cui è difficile distinguere la menzogna dalla verità. Un predicatore pentito, che, dopo anni di falsi esorcismi, cerca il riscatto personale smascherando l’inconsistenza delle possessioni demoniache, una giovane ragazza, oppressa da un padre fondamentalista, convinto che le forze del male abbiano preso il possesso dell’anima della figlia, una troupe televisiva, incaricata di documentare gli avvenimenti, e la provincia americana, con tutti i suoi segreti e le sue ambiguità, sono gli attori di una rappresentazione che chiude lo spettatore in una trappola angosciante, in un gioco di maschere in cui nessuno è ciò che sembra.

L’unica opera proveniente dall’oriente, Akma-reul bo-at-da (I saw the devil) del regista sudcoreano Jee-woon Kim (noto al pubblico italiano per il film Bittersweet Life e agli appassionati di cinema orientale per il recente, e deludente, The Good, the Bad and the Weird), è un horror-noir di ottima fattura, anche se di impianto piuttosto tradizionale. Il film si inserisce nella scia dei serial killers movies adottando un impianto narrativo che ricorda da lontano Seven di Fincher: un giovane poliziotto perde la fidanzata per mano di un efferato assassino, che non esita a torturare ed uccidere giovani donne al solo scopo di ricavarne piacere. Il dolore della perdita porta l’agente a mettere in atto un sofisticato piano di vendetta, che sfocia in una caccia senza tregua nella quale i ruoli di persecutore e vittima vedono continue inversioni e sovrapposizioni. Con grande raffinatezza formale, Jee-woon Kim mette in scena un mondo infestato da una malvagità radicale, abitato da mostri che hanno sacrificato la loro residua parte di umanità alla sfrenata soddisfazione di impulsi primordiali. I colori accesi e gli eleganti movimenti di macchina disegnano un’estetica della violenza nella quale sadismo e crudeltà riescono ad attrarre e affascinare l’occhio di chi guarda.

Vanishing on 7th Street di Brad Anderson, già autore di Session 9 e L’uomo senza sonno, porta invece sullo schermo una storia apocalittica, tutta chiusa in una città al volgere di un’era, improvvisamente stretta nella morsa dell’oscurità. Il male arriva inaspettatamente in un giorno qualunque, sotto forma di un blackout totale, trascinando nell’ombra chiunque si trovi sprovvisto di una fonte di luce. I pochi sopravvissuti si ritrovano a vagare per una metropoli deserta, alla costante ricerca dei propri cari, aggrappati a flebili sorgenti luminose, nell’attesa di essere anch’essi divorati dal buio. Pervaso da un senso di fine imminente e dall’annuncio, forse, di un nuovo inizio, il film non fornisce alcuna spiegazione all’accadere degli eventi, lasciando i propri personaggi in balia di labili ipotesi e di (im)possibili speranze di salvezza. Formalmente giocato sull’opposizione tra luce e ombra, l’opera di Anderson inquieta e disturba, per il sostrato escatologico che lascia intravedere.

Infine, John Carpenter’s The Ward di John Carpenter era forse il titolo più atteso dell’intera sezione. Al ritorno sul grande schermo dopo ben 9 anni di assenza, con la sola eccezione dei lavori televisivi per la serie Masters of Horror, Carpenter dirige un horror claustrofobico, girato quasi completamente in interni, tra i corridoi di un labirintico ospedale psichiatrico. Kristen è una giovane ragazza che è stata colpita da un’amnesia pressochè totale: per questa ragione viene forzatamente ricoverata all’interno di una clinica per malati mentali. Costretta a confrontarsi con le altre pazienti, Kristen non vuole altro che fuggire dalla struttura per riguadagnare la libertà perduta: ma saranno i fantasmi della sua mente la vera prigione da cui dovrà cercare di liberarsi. Pur diretto in maniera ineccepibile, e pervaso da una forte carica di tensione che tiene lo spettatore inchiodato alla sedia dall’inizio alla fine della proiezione, l’ultimo lavoro di Carpenter lascia in bocca un amaro senso di delusione: sembra che il regista abbia completamente dimenticato i grandi temi del suo cinema, deviando verso una concezione meramente psicologica del male, che non può che impoverire la profondità della sua riflessione, portata avanti con coerenza nel corso della sua lunga carriera. Nonostante il mancato lieto fine, esito di una guarigione non completamente avvenuta, John Carpenter’s The Ward consola e tranquillizza, ricomponendo tutti gli elementi del puzzle all’interno di una cornice assolutamente razionale. Ma ridurre la questione della natura del male ad una semplice diagnosi psichiatrica appare una semplificazione inaspettata per un regista che da sempre ha preferito occuparsi della dimensione metafisica del male, ancorandola a una visione cosmica dell’ordine morale, che potesse guardare oltre le singole manifestazioni individuali. Quel che manca insomma all’ultima fatica del maestro dell’horror è il consueto coraggio nell’affacciarsi sull’abisso dell’ignoto, scrutando, seppur solo per un attimo, i meandri dell’enigma del male assoluto.

 


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