TFF 30/Un festival educato PDF 
Andrea Mattacheo   

Il concorso del 30° TFF permette di avere un prospettiva aerea sull’intero festival, di osservarlo con l’occhio vigile del cartografo comprendendo la sua attuale mappa concettuale e l’operazione di “pianificazione del territorio culturale” che a Torino si è scelto di intraprendere negli ultimi anni. E quale territorio ha preso forma dalle recenti “direzioni illustri”? Dall’alto del concorso - momento che dovrebbe dare un senso emotivo e affettivo comune alla manifestazione - si vedono una serie di strade agibili, talvolta suggestive e spesso monotone (sempre e comunque tracciate sul modello di altre), che hanno preso il posto di sentieri sterrati, impervi e faticosi nei quali ci si poteva arenare ma la cui fatica qualche volta veniva ripagata da visioni uniche, capaci di togliere il fiato.

La sezione competitiva di questo Torino Film Festival, così come quella dei 5 precedenti, è un insieme vago e senza centro di prodotti di confezione, talvolta anche ottimi, ma comunque sempre estremamente rodati, spesso figli di scuole di cinema, di tecnica appresa e poi restituita più o meno bene. E quello che prima era un luogo dove si ascoltavano urla mai sentite, sgrammaticate e talvolta di una vitalità immensa, è ora invece l’auditorium ben arredato nel quale i bravi studenti espongono i loro saggi di fine anno. Shell di Scott Graham, che ha vinto (direi giustamente, per quanto improbabile possa essere una “giustizia di tipo estetico”) il premio come miglior film, è in questo senso un caso estremamente paradigmatico. Un film preciso dove ogni cosa è al posto giusto, tutto funziona e si percepiscono una consapevolezza narrativa e stilistica notevoli. Un “buon film”, recitato straordinariamente bene e diretto con una capacità non comune di ascolto dei  luoghi e dei personaggi raccontati, nel quale però tutto sa di già visto, tutto è atteso e prevedibile e, anche se ben gestito (e a tratti emozionante), niente alla fine ci sorprende davvero. E si potrebbe dire lo stesso della gran parte delle altre opere viste in concorso. Film ben confezionati e spesso di maniera, talvolta riusciti e interessanti, talvolta ininfluenti o irritanti, tutti ascrivibili più o meno a correnti standardizzate dell’autorialità festivaliera contemporanea.

Ci sono le narrazioni stereotipate in salsa indie o “arty” degli americani, sempre presenti in buon numero durante la gestione Amelio-Martini; tra i quali, fosse anche solo per la vicenda produttiva, il più interessante è sembrato essere Pavilion di Tim Sutton, opera prima realizzata grazie al crowdfunding on line. Certo non un film particolarmente originale, legato appunto a una certa tendenza “arty” dei giovani registi americani usciti dalle scuole di visual arts; né tantomeno riuscito, se è vero che, spesso, alle immagini costruite da Sutton manca la giusta potenza per sopperire all’evanescenza di una struttura programmaticamente debole. Tuttavia, si tratta per lo meno di un film sporco e dai contorni sfumati, pur provenendo comunque da altri lidi (SXSW, festival musicale e cinematografico del quale Pavilion rispecchia l’essenza). Sanno invece di maniera, Sundance Institute e indipendenza meccanizzata, la storia di rinascita Arthur Newman (nomen omen) e l’esistenzialismo insincero e fuori tempo massimo di Sun Don’t Shine. Inutile e irritante il secondo, più piacevole ma rassicurante e già visto decine di volte il primo.

Ci sono gli immancabili ritratti di varie solitudini contemporanee declinati più o meno autorialmente e seriosamente all’europea o all’asiatica, che affollano le sezioni collaterali di ogni grande festival (Panorama, Semaine, ecc). Prodotti preconfezionati talvolta decentemente, ed è il caso del film turco Present Tense, racconto di trentenni (“muccineschi” ma un po’ più disperati e credibili) senza prospettive, tra voglia di emigrare, delicatezza di plastica dal vago sapore mediorientale e tanti silenzi. Talvolta impachettati piuttosto male come Tabun Mahabuda, una sorta di copia mongola di Lost in Translation, sterile e noioso quanto l’“originale” e senza nemmeno Bill Murray… Oppure anche peggio come Una Noche e An Himmel Der Tag, melodrammi che vorrebbero essere di qualità e rimangono prigionieri di intenti e premesse retoriche mai riscattate da uno stile visivo e di racconto piatto, banale, assente. Stile che latita anche nei due film che si affidano al “packaging” del thriller contemporaneo d’autore anglofono, The Liability e Call Girl, inchiodati alla superficie delle loro strutture funzionali e artefatte e delle loro immagini patinate, incapaci di affondare i denti nella carne dei personaggi che raccontano.

Per un eterno provincialismo devono poi esserci i film italiani (a Torino come ovunque) e devono essere sempre un numero tale da non far parlare qualcuno (su qualche brutto giornale) di snobismo o esterofilia. E anche nella selezione nazionale - dove l‘obbligo dell’anteprima avrebbe potuto dare visibilità a qualche lavoro troppo maleducato per le passerelle di Roma e Venezia - si è scelto di essere educati (sebbene in maniera diversa, perché i prodotti di media qualità in Italia non sono proprio all’ordine del giorno, o forse “non sono” e basta). Dando allora spazio a due “famosi” (probabilmente) rifiutati altrove, alle prese con discutibili video-diari. E a Su Re, racconto della Passione di Cristo in lingua sarda, opera notevole ed esteticamente ineccepibile, tuttavia un po’ scontata nella sua manifesta autorialità che rifiuta le impurità del confronto con la realtà del contemporaneo, e si rifugia nella precisione artefatta di una messa in scena tanto rigorosa quanto forse un po’ facile. E pur considerando i due oggetti più insoliti, spuri e in qualche modo sorprendenti visti in competizione (I. D. e Az Do Mesta As), ci si accorge che rispecchiano fedelmente l’identità di altri festival dai quali provengono (Karlovy Vary e Abu Dhabi).

Il TFF che un tempo era un vero laboratorio ha ormai delegato questa funzione a un istituzione (TFLab) che produce in serie autorialità spesso piuttosto stereotipate, e ha rinunciato a esserlo attraverso l’atto ontologico della programmazione (un atto di creazione si diceva in anni ormai troppo sospetti). Rimane così un contenitore vuoto riempito di anno in anno, al di là di chi lo dirige (prima Moretti, oggi Amelio, e domani Salvatores oppure Topo Gigio), con forme raccolte altrove. Rimangono così solo dichiarazioni di indipendenza che si perdono nei “vorrei ma non posso” e nelle scollature di un abito, rimangono le buone maniere di chi ascolta gli ultimi (le parole sono facili da digerire, i gesti un po’ meno) e poi dopo va al galà con i primi (che hanno relegato perniciosamente gli ultimi a oggetto di gara d’appalto).

 


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