Quando ho scelto di scrivere sulla retrospettiva dedicata a Nicolas Winding Refn – illustre e sconosciuto regista danese mai distribuito in Italia prima di essere presentato con i suoi sette film al Torino Film Festival 2009 –, mi ero fatto guidare semplicemente dal titolo della sua trilogia, Pusher. Spinto dalla curiosità di vedere come si raccontano le storie d’illegalità nel nord dell’Europa, dissimulavo tuttavia una buona dose di scetticismo, nel timore di ritrovarmi di fronte ad un’algida composizione fatta di violenza e desolazione nordica. Contrariamente a questi miei vaghi preconcetti, “Rapporto Confidenziale” è stata una sezione che ha creato, invece, una vera e propria dipendenza, verso la quale mi dirigevo quotidianamente, insieme a molti altri affezionati, sapendo che mi sarei calato nelle pieghe noir e avvelenate della capitale danese.
I film di Refn iniziano a pulsare forte fin dall’inizio, con l’esordio di Pusher, nato inizialmente come corto e successivamente finanziato dal governo danese per diventare il suo primo vero lungometraggio. Vie livide, case abbandonate e piazze deserte di Copenaghen sono gli ambienti esterni che fanno da sfondo alla vita della piccola criminalità locale. In questo primo film è evidente l’esigenza del regista (allora appena ventiseienne) di aderire in maniera più che mai realistica alla violenza della storia che racconta. Ingaggia veri spacciatori, gira spesso e volentieri con la camera a mano e si nutre di un compatto gruppo di attori che giureranno fedeltà all’autore, ritrovandosi spesso nei suoi lavori successivi. Frank, un giovane spacciatore, tira avanti con questa che è la sua unica occupazione. Ma nel mondo dell’illegalità, dove tutti cercano di fregare gli altri, è facile cadere giù, e Frank è particolarmente sfortunato. Come Sisifo, sfida gli dèi dello spaccio, che lo ricacciano puntualmente giù dalla china. Frank tenta di risalire, di saldare il suo debito, vagando alla disperata ricerca di soldi attorno all’anello più debole della catena, i tossici. Si lascia coinvolgere in un affare con un trafficante straniero che dovrebbe ridargli un po’ di respiro, ma qualcosa va storto e il debito cresce. In un girone infernale senza vie d’uscita, Frank si trova a dover prendere continuamente decisioni per la sua stessa sopravvivenza, con la complicità di un altro outsider un po’ suonato, Tonny (interpretato da Mads Mikkelsen, che in seguito diventerà l’attore feticcio di Refn), e di Vic, una prostituta con la quale intrattiene un rapporto ambiguo, l’unica persona ad amarlo, e che Frank decide poi di tradire proprio quando si prospetta una via di fuga a due, eliminando così ogni possibilità di redenzione.
In Bleeder, secondo film datato 1999, con una panoramica veloce e ravvicinata sugli scaffali ricolmi di video a perimetrare in tutte le direzioni gli spazi di una videoteca a dir poco eterogenea – da Antonioni a fantasiose tipologie di porno –, Refn dichiara esplicitamente alcuni suoi riferimenti cinematografici, come i film di serie B italiani, ma anche il genere noir più puro come quello di J. P. Melville. Per la prima volta irrompe il lato ironico del regista danese, e gli effetti sono decisamente positivi. Al centro continua ad esserci lo stesso attore protagonista di Pusher, ora alle prese con paure più intime, costretto ad affrontare una paternità non desiderata, e continuano ad esserci personaggi violenti, qui anche razzisti verso gli immigrati (protagonisti del successivo Pusher III). I non-violenti, invece, passano gradualmente dall’altra parte, come accade a Leo ("non voglio un bambino perché è un mondo del cazzo"). Dopo aver assistito al pestaggio di alcuni giovani arabi in un locale notturno, Leo sente infatti di non poter più vivere senza una pistola. La società trasforma per osmosi i suoi componenti. E all’insegna di questa visione feroce della realtà lo spettatore è continuamente sottoposto all’ossessione di Refn per i corpi lacerati e il sangue, quello infetto usato per vendicarsi, e quello mediato, versato a fiumi nei video ultraviolenti di cui Leo si nutre. Un’ossessione per il sangue cui rimanda peraltro anche l’immagine astratta su cui indugia il più recente (2003) e bistrattato Fear X, sospendendo per lunghi tratti il tempo della narrazione.
Sebbene l’autore si dichiari principalmente interessato al realismo delle sue storie, gli ultimi due film – Bronson e Valhalla Rising – vanno in direzione ostinata e contraria. L’ultimo, per stile (lunghi e solenni piani fissi) e soggetto, tenta la via dell’epica con un racconto impregnato di spiritualità ed efferati spargimenti di sangue, ambientato al tempo dei vichinghi. Il film precedente, Bronson, resta invece la pellicola più godibile in assoluto, quella che ha riscosso un fragoroso successo in sala. Qui Refn cambia nuovamente registro e convince definitivamente con un trattamento quasi “letterario” della sua materia preferita. Questa volta ci troviamo ad assistere ad una gioiosa poetica del culto della celebrità, che si costruisce ovviamente attraverso la violenza. Il protagonista, soprannominato Bronson in omaggio all’attore-giustiziere americano, è un fine praticante dell’arte della rissa, attività che lo porta a passare di prigione in prigione per circa trent’anni e grazie alla quale alimenta così il proprio culto in Inghilterra. Questo adattamento, tratto da una storia vera, è stato apprezzato anche al Mercato del Festival, che si è concluso con l’acquisto di Bronson per la sua prossima distribuzione nelle sale italiane, e della trilogia di Pusher per la messa in onda su un canale a pagamento.
La nuova sezione “Rapporto Confidenziale” voluta da Gianni Amelio si è quindi mossa in definitiva nel solco della tradizionale specificità del festival cinematografico torinese, che è sempre stata quella di far scoprire e divulgare l’opera di autori invisibili nel nostro paese.
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