(La) Storia immortale PDF 
di Marco Toscano   

Se è vero che un'opera comincia a svelare il proprio carattere, la propria intima natura a partire dal titolo, nel caso di Storia immortale esso finisce col dichiarare esplicitamente il senso dell'operazione wellesiana di trasposizione del racconto (quasi omonimo) di Isak Dinesen (pseudonimo di Karen Blixen), fino ad assurgere addirittura a metonimica rivelazione circa l'intera poetica dell'autore. Una storia artistica, quella di Welles, costellata di progetti mai partiti o portati a compimento (tra essi quello di realizzare la versione cinematografica di altri tre racconti della Blixen contenuti, come La storia immortale, nella raccolta Capricci del destino) e di indegne manipolazioni imposte dalle logiche dello studio-system hollywoodiano, come nel caso paradigmatico de L'orgoglio degli Amberson, forse il più grande capolavoro mutilato della storia del cinema assieme a Rapacità di Stroheim.

Ma, prima ancora che ricordare l'incompiutezza determinata dalla ragion pratica, la sottrazione al titolo originario rievoca un universo consapevolmente fondato sull'indeterminazione, su un non-finito quasi michelangiolesco, esigenza di fuga interpretativa, di vita eterna. La poetica di Welles destina (o condanna) le proprie opere a non estinguersi proprio in virtù di tale cavità, del foro scavato dal regista nel corpo dell'immagine, quasi a permetterle di respirare, di sopravvivere alle tendenze estemporanee e al trascorrere inesorabile del tempo. È in questa parte di marmo lasciato grezzo, non lavorato, che ritroviamo l'origine primaria della sensazione di spiazzante modernità e freschezza sprigionata dai suoi film. Capolavori assoluti perché in grado di rinnovarsi assieme alla realtà che li aggredisce, nel senso della messa in scena e in quello di una profonda etica della visione. La vocazione all'incompiuto, la medesima che ritroviamo pure nel pensiero di Leonardo da Vinci (e parimenti eclettico a quello dell'artista-scienziato rinascimentale è il genio di Welles), nasce proprio dalla convinzione che la creazione culturale, in quanto prosecuzione e perfezionamento di quella naturale, alla stregua di quest'ultima debba rifuggere dalla fissazione, dall'eccessiva esplicitazione che è cristallizzazione (in forme, simboli, stereotipi). Se l'essenza stessa del vivere è il divenire, l'unica possibilità per un'opera di sopravvivere è il lasciarsi percorrere dal tempo, nell'apertura alla novità degli approcci interpretativi. Ecco perché la Cathrine Lescault del Frenhofer di Balzac è stata assassinata dal proprio creatore ben prima della sua distruzione materiale. Ecco perché "la storia" diviene semplicemente "storia", ed in virtù di ciò "immortale".

Tale esigenza di incompiuto non poteva che trovare un'espressione congeniale nel racconto della Blixen, che questa irrealizzabilità tematizza. Alla "storia" rimarrà inevitabilmente negato lo statuto di realtà, per due motivi: perché Virginie e Paul, nell'abbandonarsi al sentimento, recitano in effetti un "copione" diverso da quello stabilito, riscrivendo soggettivamente una storia (ora la "loro" storia) che in nessun caso avrebbe potuto mantenersi immutata al cospetto della rielaborazione della vita. E poi perché, anche ammettendo che ciò sia possibile, il marinaio dichiara a Elishama che mai, neppure per ingenti somme di denaro, racconterebbe ciò che gli è avvenuto. Nessuno infatti accetterebbe di credere alla "sua" storia perché, in tal caso, non potrebbe più raccontarla su un qualche mercantile come fosse capitata a lui, perdendo la possibilità di esserne il protagonista tanto nel riferirla agli altri, quanto nella propria fantasia. Ecco perché non ci si può appropriare di una storia, patrimonio di tutti, e renderla reale, ecco perché l'iniziativa di Mr. Clay non può che essere destinata al fallimento.

Se parrebbe addirittura scontata - per quello che è a tutti gli effetti il testamento artistico di Orson Welles - una lettura del tentativo di realizzare una "storia" in quanto metafora dell'attività cinematografica (con conseguente assimilazione di Clay alla figura del regista), non dello stesso parere, a sorpresa, è Welles stesso. Per quest'ultimo, più grandiosamente, l'ossessione e la solitudine di Clay sono le stesse del Dio creatore, e medesimo ne è lo scacco nel constatare che i burattini sfuggono al controllo del burattinaio, decisi alla conoscenza del bene e del male. Cioè ad avere coscienza del proprio percorso, della propria tragica e inutile esistenza.

Se il senso ultimo dell'opera letteraria è rispettato, come anche il suo dipanarsi diegetico, tuttavia il film di Welles sembra produrne addirittura un'estremizzazione, introducendo una serie di minime, eppure significative, differenze. Dal punto di vista narrativo il film acuisce la componente ellittica del racconto, ad esempio omettendo i tentativi falliti di abbordaggio per le strade del porto da parte di Clay ed Elishama. Ma si tratta del dato più superficiale. Ben più interessante risulta lo spostamento dello sfondo della vicenda da Canton (Cina continentale) all'isola di Macao, il quale sembra suggerire una volontà di ulteriore indeterminazione geografico-sociale nonché temporale e spaziale: dov'è esattamente quest'isola? Da chi è popolata? È ferma, oppure galleggia alla deriva, ai confini del mondo? Da dove viene quest'impressione di malattia, di un'aria pestilenziale, stagnante, di un tempo immobile? Ed un simile ripiegamento su sé stesso non fa ovviamente che accentuare la dimensione di isolamento di Mr. Clay, rinchiuso in una fastosa dimora (che rimanda inevitabilmente allo Xanadù di Kane, con Virginie a incarnarne il divieto "No trepassing" nella propria riluttanza ad accedervi) al centro della delocalizzazione e del decentramento di un'isola.

A conferma di tale chiave di lettura, il film preclude, infatti, al ricco signore l'unico vero momento di condivisione e compagnia offertogli dal testo letterario, vale a dire la cena del marinaio alla quale, a differenza che nel racconto, egli non partecipa. La perifericità dell'ambientazione, inoltre, sembra sottolineare quanto già contenuto nel racconto, vale a dire la somiglianza, la "prossimità" alla propria idea e condotta del vivere che Clay crede di scorgere nel giovane marinaio, il quale ha trascorso, naufrago, più di un anno su di un'isola deserta. È proprio quest'ultima riflessione ad introdurre quello che può essere considerato l'apporto più rilevante da parte dell'opera filmica, nascosto nelle pieghe finali della rielaborazione diegetica di Welles: riguarda le conchiglie che il marinaio prescelto si porta dietro e che nel racconto costituiscono l'oggetto della sua ultima richiesta ad Elishama, mentre nel film è di fronte a Clay che egli ne fa mostra. Da una parte ciò, a dispetto di una speranza di identità col marinaio da parte del ricco signore - che sembrerebbe trovare conferma nel terrore di Virginie nei confronti di entrambi di essere guardata in viso - radicalizza proprio il confronto/scontro tra i due uomini, evidenziandone la diversità biologica (giovane/vecchio, vita/morte) ed economico-sociale (povero/ricco), le quali finiscono per confluire in un'antitesi morale: come il marinaio sogna di possedere una barca e di tornare nella propria terra, cede all'amore e si appesantisce di una quantità di conchiglie apprezzandone la bellezza (e non curandosi certo della loro scarsa utilità), così Clay è individuo arido, avvizzito nei sentimenti, per il quale l'unica lettura che abbia un senso è quella delle cifre dei propri libri contabili ("Quel milione di sterline sono io stesso. Sono i miei giorni e i miei anni, il mio cervello e il mio cuore, la mia stessa vita"). D'altronde la diversità del giovane è sottolineata anche fotograficamente dalla luce dichiaratamente artificiale che lo illumina.

Ma la variazione operata dal film nel passaggio riguardante le conchiglie cela forse anche un'altra motivazione: si tratta dell'esplicitazione di come la morte di Clay sia dovuta alla presa di coscienza del proprio fallimento. Per la Blixen Clay è già morto quando, sul nascere del nuovo giorno, Elishama gli si avvicina per la "trionfale conclusione della sua storia". E le parole della scrittrice non fanno che alimentare il sospetto che la fine lo abbia sorpreso mentre egli era ancora convinto del successo della sua opera ("ma le labbra sottili erano chiuse in un sorriso contorto"). Abbiamo già assistito alla notte dei due giovani e al suo deviare dal corso previsto degli eventi, ma Elishama non si è ancora sentito annunciare la definitiva sconfitta del progetto di Clay da parte del marinaio ("Raccontarla? A chi la racconterei? Chi la crederebbe se la raccontassi?"), tant'è che egli stesso è, al momento, perfettamente persuaso del trionfo: "il signor Clay aveva avuto ragione, aveva imbroccato il solo rimedio efficace contro le sue sofferenze. La realizzazione d'una storia era la sola cosa che potesse dar riposo a un uomo". Nella visione di Welles, al contrario, Clay muore solo dopo un colloquio conclusivo col giovane il quale, chiedendogli di consegnare a Virginie una splendida conchiglia in suo ricordo, non fa che confessargli l'evidenza di un coinvolgimento affettivo che egli non aveva voluto. Perciò, come un Dio tradito, recisi i fili con cui credeva di muovere il mondo, Clay non regge alla delusione.

Sempre all'interno di tale scena, su cui cala il sipario del film, si assiste ad una nuova differenza. Virginie, che la Blixen non trasportava fuori dalla stanza teatro del suo incontro col giovane, è sulla terrazza, a seguire con gli occhi l'allontanarsi del proprio amante (sguardo che nel racconto spettava ad Elishama) e ad ascoltare le parole che il commesso di Clay le rivolge. La Blixen sceglieva di confinare l'"eroina della storia" nella camera da letto che era stata dei suoi genitori e in cui tante volte aveva giocato da bambina ad immaginare il proprio futuro, chiudendo la porta sulla sua vicenda letteraria, nonché probabilmente sulla sua esistenza (Virginie rimarrà reclusa nella stanza del passato, come per tutto il racconto si è dimostrata prigioniera del rimpianto di giovinezza). Welles, invece, decide di aprire la gabbia, permettendole di volare via dietro l'amato (almeno con lo sguardo), memore forse della creatura a cui Virginie viene accostata nel racconto, vale a dire, per l'appunto, un uccello. Ma si tratta di una liberazione solo apparente. Tutti i personaggi del film sono inchiodati, chi per un motivo chi per l'altro, alle proprie misere esistenze: e Virginie più di tutti.

Se la Blixen parla di un "articolo tristemente sottovalutato" e di una donna "ancora giovane e fresca", l'impressione è che nel film la pur splendida Jeanne Moreau incarni un'idea di bellezza più sciatta e segnata, come decisamente squallida appare la sua abitazione se paragonata alla descrizione che ne dà il racconto, parlando di "una pulita casetta cinese". E se Welles le lascia oltrepassare la porta della stanza, più difficile per lei sarà evadere dagli specchi alle sue pareti, che continuano a proiettare il simulacro di un ricordo, o di una speranza, di felicità perduta. Non a caso nel momento in cui Virginie si trova a guardare l'immagine riflessa dal vetro (quella presente, quella passata, quella sognata) le note che l'accompagnano sono quelle del medesimo tema musicale di Un'altra donna (W. Allen, 1988), altro straordinario esempio di una figura femminile alle prese con un doloroso bilancio esistenziale.

L'impossibilità di un mutamento, di un divenire che porti con sé un'illusione di riscatto, comunque, è destino comune a tutti i personaggi. E la dissolvenza sul bianco che chiude l'opera sembra il congelamento di una scena remota in un'assenza di tempo e, peggio ancora, di ricordo (simile alla neve che avvolge turbinando le figure in una boccia di vetro capovolta, come quella nella mano di Kane), il depositarsi di una spessa cortina polverosa su un gruppo, ancora una volta, marmoreo. È infatti una dimensione essenzialmente statica quella in cui si muovono tanto la narrazione quanto, coerentemente, la messa in scena, caratterizzata da una grande immobilità. L'unico controbilanciamento, in quest'ottica, è costituito dal montaggio rapido e subliminale del rapporto sessuale tra Virginie e il marinaio, il primo mostrato da Welles in un suo film. Quasi a suggerire come l'unica forza capace di soffiare potentemente su quell'invincibile strato di polvere e neve, e di vincere così la morte, non può che essere l'amore, la comunione tra due esseri perduti.

 


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