Parla con lei: rosa rosso Almodovar - Pedro Almòdovar PDF 
di Daniele Vecchio   

"Non sono mai stato un cineasta politicamente corretto quindi non ho intenzione di commentare queste critiche". Così ha risposto Pedro Almodovar a una domanda rivoltagli in conferenza stampa a proposito delle proteste degli animalisti, che lo accusavano di aver massacrato crudelmente sei tori per girare alcune sequenze del film. Contestabile quanto si vuole, Almodovar resta un autore caustico e inquieto, anche quando sembra attestarsi su visioni più fortemente sentimentali, come quelle dei suoi ultimi film. Anche in Parla con lei, storia di donne in coma e uomini che vorrebbero amarle, la morbosità è il tema che vien fuori, in modo sottile, leggero anche, dal personaggio di Benigno, infermiere che cura l'addormentata Alicia, della quale è innamorato.

Benigno, già a partire dal nome, è come un tumore innocuo, un persona malata ma buona, o meglio malata in quanto buona, perché la perversione è difficilmente separabile dall'energia che la genera, cioè dall'amore; e Benigno, nel suo irrisolto orientamento sessuale, le perversioni le sfiora quasi tutte: omosessualità (l'ambiguità è mantenuta per tutto il film), voyeurismo (spia continuamente Alicia dalla finestra), feticismo (le ruba il fermaglio), necrofilia (la possiede mentre è in coma). Ma l'unica autentica malattia di Benigno, come ha modo di dire più volte egli stesso, è la solitudine, che non gli impedisce però di continuare a sperare in una vita felice. Del resto il fatto che molti preti missionari siano violentatori o pedofili non impedisce alla sorella di Lydia di continuare ad aver fede. Benigno compie tutto sommato un gesto d'amore autentico verso Alicia, nel discreto e asettico abbandono terapeutico in cui ella si trova, prima parlandole, poi concretizzando fisicamente – con tutto il coraggio necessario – il suo amore per lei. Il gesto riporterà vita reale nel corpo della ragazza, che quando si sveglierà perderà il bambino, come a riprova che il passaggio vitale si è compiuto.

Scientificamente una persona in coma non può ascoltarci, ma scientificamente - spiega il primario a Marco - non vi è nemmeno possibilità che si risvegli: tuttavia a volte accade il miracolo. Allora ci si rende conto che spesso si comunica di più confidandosi con una persona addormentata, in coma, che non può realmente ascoltarci, che a parlare con una persona viva e sveglia. O comunque può esserci in realtà ben poca differenza fra le due cose. Marco rimprovera a Benigno di fare un monologo con Alicia e di illudersi che ci sia un vero scambio tra loro. Ma questa illusione avvince lo stesso Marco quando con Lydia, poco prima dell'incidente nell'arena, si dicono:

Lydia: "Marco, poi dobbiamo parlare"
Marco: "Ma stiamo parlando da un'ora"
Lydia: "No, tu stai parlando, io non ho detto niente"

Ecco che la frase ricorrente in tutto il film, "parlare con...", ha un significato profondo o superficiale a seconda dei contesti in cui è calata, al di là del fatto che delle parole in senso stretto siano effettivamente pronunciate. Nel mondo di Almodovar l'incomunicabilità, più che una condizione dell'anima, è un impedimento fisico, generato dalla crudeltà di un destino che spesso restituisce un grado di consapevolezza umana superiore, a prezzo però di grandi dolori. Lydia non ha il tempo di spiegarsi con Marco poco prima di essere travolta dalla furia del toro, Benigno non ha modo di dichiararsi ad Alicia prima del suo incidente, ma ciò non esula i personaggi dal rimorso: Marco perde le sue persone più care senza essere riuscito a chiarirsi con loro (con la sua vecchia compagna, con Lydia e infine con Benigno), Benigno finisce per essere ossessionato dalla figura di Alicia.

Ogni volta è il liquido, l'osmosi del mondo sensibile a ricordare di cosa è fatta la vita: il flusso mestruale, o per converso la sua assenza, il sangue che sgorga dai corpi del toro e del matador, le lacrime che solcano il viso di Marco, ogni qual volta torna un ricordo doloroso, quello di Lidia, per il senso di colpa, e quello di Benigno, per la disperazione; ma anche il liquido amniotico contenuto nel soprammobile sul comodino di Alicia, la pozione magica nel film muto, che mescola estasi e dannazione del rapporto amoroso, e non di meno la pioggia del finale. Il fascino ambivalente della realtà sensibile traspira anche dalle figure di animali, simboli di morte (il toro, il serpente), così come la rappresentazione fisica del balletto (la corrida, la danza, il cinema muto) fanno da schema al rapporto indissolubile tra eros e thanatos, tra passione e tragedia. Una corrispondenza che si spinge fin dentro la complessità e irrisolutezza dei rapporti umani, come si evince dallo scambio di battute del finale tra Marco e Katerina Bilova, l'istruttrice di Alicia, interpretata da Geraldine Chaplin:

Katerina: "Un giorno io e lei dovremmo parlare" [di nuovo la frase chiave, ndr]
Marco: "E sono sicuro che capirci sarà più semplice di quanto si creda"
Katerina: "Semplice? Niente è semplice. Mi creda, sono maestra di ballo e niente è semplice"

E il discorso sull'altro binomio di umori caro al regista, il maschile e il femminile, che in Tutto su mia madre era affidato al teatro con Un tram che si chiama desiderio, qui è materia – per ammissione della stessa Katerina – della danza e del cinema, dunque ancora di rappresentazioni intradiegetiche. E così come il femminile è luogo del maschile e la vita è luogo di morte, anche lo spettacolo è visto come luogo del suo opposto, dell'intimità, laddove questa non può essere trasmessa da semplici parole, e c'è bisogno semmai della sua assenza (il cinema muto), o della danza (le performance di Pina Bausch), della musica (l'interpretazione da brivido di Caetano Veloso): tutti strumenti di catarsi che suscitano autentica commozione.

Particolare è poi la riflessione sul cinema. Amante calante, che turba Benigno e gli suggerisce il gesto estremo, è un film muto, per meglio esplicitare la funzione solo apparentemente centrale della parola all'interno del linguaggio, della comunicazione, e si tratta di un improbabile commistione tra la fantascienza di Meliés e il surrealismo onirico di Buñuel, con una sequenza straordinaria (l'uomo rimpicciolito che si arrampica sul corpo della sua amata fino a tuffarsi nudo nella caverna del suo sesso) che sembra omaggiare il Fellini de Le tentazioni del dottor Antonio e del Casanova (l'entrata nella Grande Mona). C'è poi la copertina di un libro, che spunta due volte nel film, con l'immagine di Robert Mitchum in La morte corre sul fiume, allegoria perfetta del destino malevolo che perseguita gli innocenti.

All'interno di questo grande romanzo popolare torna a mostrarsi un amore pulp, non solo per i brevi contrappunti ironici o per le didascalie che accompagnano le immagini, e che ricordano proprio Pulp Fiction, ma anche per quella passione a metà tra melodramma e soap-opera, con le ormai consuete ambientazioni ospedaliere. Questo perché crescendo Almodovar non perde il caratteristico gusto kitsch, che in realtà non è più maturo rispetto alle commedie giovanili, ma è semplicemente mutato, così da poter essere adattato a una nuova attenzione ai sentimenti, elementi centrali del dramma. E ancora una volta, come in Carne Tremula e Tutto su mia madre, il tempo del racconto si dilata e si interseca ulteriormente, si dipana lungo una durata che è quasi quella della vita. Ma di nuovo le grandi distanze spazio-temporali non riescono a consumare gli amori, vicinanze per definizione, sempre al varco di un destino travolgente che condanna all'eterno ritorno.

 


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