Il curioso caso di David Fincher: da Autore a mestierante di talento PDF 
Piervittorio Vitori   

Battezzato artisticamente negli anni Ottanta prima alla fonte di Lucas (la Industrial Light & Magic) e poi a quella del videoclip (dunque portatore di quello che in prima battuta molti critici bollarono quasi come un marchio d’infamia), negli anni Novanta David Fincher si è imposto all’attenzione dei cinefili e degli addetti ai lavori grazie ad un poker di titoli nei quali molti videro – nonostante il regista non sceneggi le pellicole che dirige – le stimmate dell’Autore, del cineasta capace di manipolare i generi imponendo ad ogni opera uno stile personale e creando, parallelamente, mondi riconducibili a coerenti visioni tematiche d’insieme. Poi, nel 2002, Panic Room cominciò a far sospettare uno spostamento di rotta, resosi evidente e radicale con il successivo Zodiac. Ed ora che, con Il curioso caso di Benjamin Button, si è rivelato anche come fenomeno popolare, il cinema di Fincher risulta più che mai arduo da incasellare e ridurre a ricorsività, per la gioia di chi ritiene che un regista possa arrogarsi il diritto di smentire, almeno in apparenza e almeno in una certa misura, ciò che era stato prima. Quindi niente scuse: questo pezzo è anche l’ammissione di un tentativo parzialmente fallito. Tentativo che però non è detto non possa in assoluto risultare fecondo. Essendo allora un riesame della filmografia fincheriana a scopo d’inventario la cosa più sensata da fare, questo esercizio permetterà comunque di far luce su aspetti che, se non sufficienti ad abbracciare in maniera soddisfacente ogni opera di Fincher, permetteranno almeno di fissare dei paletti e di suggerire future possibilità del suo cinema.

Fincher come autore
La traiettoria cinematografica del 46enne di Denver inizia con il terzo capitolo di Alien, saga celebrata anche in virtù degli sforzi, nelle due opere precedenti, di registi di chiara personalità. Al primo impatto Alien3 può risultare deludente, eccessivamente piatto sul piano narrativo e scarno su quello scenografico (è difficile rintracciare sullo schermo il netto incremento di budget rispetto alle prove di Scott e Cameron). Eppure sono già presenti, in nuce, tracce del Fincher che verrà e che, proprio per esse, si guadagnerà un diffuso apprezzamento. Per quanto riguarda la messa in scena, l’utilizzo delle luci è fondamentale nel disegnare spazi in cui il senso di angoscia è accentuato dal frequente uso dei contre-plongée, spazi che riconciliano la saga con la sua anima horror e vengono ulteriormente valorizzati dal fatto che il teatro dell’azione è il primo di una serie di labirinti, figura cui Fincher ci abituerà. Inoltre, la caratterizzazione scenografica può essere letta come effetto collaterale di quel processo di “spoliazione” che il film attua nei confronti di Aliens e che è stato efficacemente sviscerato da Emanuela Martini su Cineforum (1): il messaggio positivo con cui si concludeva il film di Cameron, all’insegna di un restaurato – e reaganiano – ordine socio/familiare, viene sconvolto da Fincher già in apertura di film. Di più, eroina solitaria in un mondo di soli uomini, Ripley è al contempo l’incubatrice dell’alieno, madre surrogata dopo aver ucciso quella “biologica” nella pellicola precedente. Ed ecco in un colpo solo altri tre tratti caratteristici del primo Fincher: la declinazione al maschile delle sue opere (con Ripley che qui assume anche un look androgino) e soprattutto il corpo e lo sdoppiamento, accoppiata che verrà portata all’estremo ed esplicitata visivamente in Fight Club. E in realtà anche ripresa, con modalità e significati del tutto diversi, in Benjamin Button. Si è poi dibattuto su quale fosse la giusta patologia cui riferire la metafora dell’alieno: dovremmo pensare all’Aids o piuttosto al cancro? In realtà trovo che la questione sia significativa solo nella misura in cui dimostra l’attenzione del regista a scegliere e confezionare prodotti di entertainment che vadano al di là della mera superficie narrativa. Piuttosto, la fine del film aveva lasciato in sospeso un altro interrogativo: perché, o meglio, per chi si sacrifica Ripley? È vero, l’alieno, qualora rimanesse in vita, verrebbe utilizzato dal potere per i suoi scopi, libero dunque di continuare a minacciare l’umanità. Resta il fatto che questa umanità, che assumiamo meritoria di essere salvata, Fincher non ce la fa vedere. Ogni personaggio che il film passa in rassegna pare portare su di sé il marchio di Caino: Ripley a parte, il Bene pare sconfitto, o per lo meno tanto remoto da permetterci legittimamente di dubitare della sua esistenza.

E questa considerazione ci porta dritti a Seven, probabilmente il film più coeso, sia da un punto di vista tematico che stilistico, di Fincher. L’onnipresenza del Male, il suo essere caratteristica quasi endemica della società, trova qui il suo testimone nel Somerset di Morgan Freeman, cui tocca nel finale la battuta che riassume la weltanschaaung del film: “Ernest Hemingway una volta ha scritto: 'Il mondo è un bel posto, e vale la pena di lottare per esso'. Condivido la seconda parte”. E, nelle due ore precedenti, a dar ragione al detective aveva pensato, oltre che John Doe, anche una città scura, piovosa, opprimente… dolente, per dirla con il Dante la cui Divina Commedia riveste qui un ruolo significativo. Città senza nome, per di più, come senza nome è l’assassino (John Doe è per antonomasia l’uomo qualunque), a significare l’universalità della condizione rappresentata. Il tema del corpo ritorna con connotazioni quasi grandguignolesche come oggetto dell’azione del killer, mentre è più interessante riprendere quello del doppio, che unisce dinamiche consolidate ad altre più innovative. Appare evidente come, rispettando il canone della detection che vede impegnata una coppia di indagatori, Mills sia l’altra faccia di Somerest (con il dato aggiuntivo per cui la somma di entrambi è lo specchio di John Doe). Meno scontato, forse, segnalare come sia possibile una doppia lettura del finale: a due peccati dal termine del gioco – altro termine da cerchiare in rosso nel glossario fincheriano –, a chi spettano i ruoli di invidia ed ira? La sceneggiatura sembrerebbe suggerirci, rispettivamente, John Doe e Mills… Ma se invece fossero Tracy (invidiosa di una serenità perduta) e il marito? O Tracy e John Doe, che consapevolmente si sposta sulla casella dell’ira percependosi al contempo come agente di peccato e strumento di punizione? L'angoscia maggiore trasmessa da Seven rispetto ad Alien3 non sta dunque solo nel suo setting contemporaneo e verosimile, ma anche nel marcato confondersi dei ruoli, nell’assottigliarsi del confine tra la luce e il buio. Discorso che potrebbe condurre direttamente a Fight Club, non fosse che di mezzo c’è The Game.
 

Il titolo del 1997 è un’opera che può risultare decisamente spiazzante, soprattutto perché porta al grado zero quella che qui si svela come l’idea di cinema di Fincher. Una sceneggiatura, quella della coppia Brancato/Ferris (The Net), talmente implausibile da dover  quasi necessariamente essere letta come uno sberleffo, consapevole, alle ragioni della verosimiglianza narrativa. The Game si presenta avendo tutta l’aria di una mera opera di intrattenimento: un gioco, appunto, che pare chiedere allo spettatore unicamente di lasciarsi andare alle sue suggestioni cinetiche e spettacolari. Parte integrante di una costruzione di questo tipo consiste anche nell’ammiccamento citazionista, e in effetti questo è forse il primo film di Fincher che si nutre di cinema dichiarandolo apertamente, come avverrà anche in seguito: qui, volendo citare l’ovvio, Hitchcock si troverebbe a suo agio. Comunque, questo entertainment il cui scheletro è ben visibile non rinuncia a lavorare anche a visione terminata, parlandoci ancora una volta di scambio di ruoli, di società malata, di sacrificio del sé. E lo fa, peraltro, permettendosi anche di giocare con la dinamica della produzione di significato, giacché il finale del film (che svela il senso del gioco diegetico) porta ad un livello esplicito ciò che normalmente costituisce la linea narrativa implicita in film analoghi: la crescita interiore del protagonista. Un protagonista che, senza alieni a crescergli dentro o serial killer decisi a seviziarlo (Michael Douglas rischia “solo” di annegare, farsi sparare, sfracellarsi da un grattacielo…), trova nella ricchezza e nel comfort di cui si circonda quell’estensione del sé di cui il film provvederà a mutilarlo. Il tutto a significare chiaramente, essendo Fincher un moralista, che se non stai attento “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”.

Et voilà, Fight Club. Sempre con un occhio ai precedenti, è l’opera più ambiziosa del regista, quella che fa pensare che, una volta chiariti con The Game i parametri del suo cinema, Fincher miri alla luna, amplificandoli ed arricchendoli al punto da sfornare un film talmente sovrabbondante da renderne la lettura tanto tortuosa ed ambigua quanto quella dell’opera precedente poteva risultare lineare. A rimanere intatta è l’idea di gioco, formalizzata nella scelta, per la terza volta consecutiva, di un regime di focalizzazione interna: in Seven era la coppia Mills/Somerset a farsi carico della titolarità del nostro sapere; in The Game era Nicholas Van Orton; in Fight Club è il narratore interpretato da Edward Norton. Parallelamente, e perché il gioco riesca, dobbiamo poter disporre nella diegesi di un burattinaio il cui agire rifletta quello portato avanti dal regista nei nostri confronti: ecco, dunque, di volta in volta, John Doe, Conrad Van Orton e Tyler Durden. Con una differenza, però, rispetto al passato: l’appellarsi allo spettatore da parte del narratore di Fight Club porta ad un livello estremo il gioco. I concetti di accumulo ed esasperazione si riscontrano comunque anche su altri piani, e su ognuno espedienti azzeccati si alternano a vezzi fini a se stessi e cadute di tono. Sul piano stilistico, l’inserimento dei frame subliminali e la visualizzazione della casa come somma di oggetti di consumo e misura del sé sono funzionali alla vicenda. Molto meno lo sono le bruciature della pellicola. Sul piano tematico, la denuncia dei guasti della società assume connotazioni azzardate per quanto concerne il côté morale dell’opera, soprattutto quando, richiamando dinamiche e pratiche di chiaro stampo totalitaristico, il film spiega con disinvoltura probabilmente eccessiva il metodo utilizzato da Tyler Durden per fabbricare il sapone. E mentre discorsi quali quello sull’antitesi oggetti/corpo nell’ambito della (ri)definizione del sé o quello sul senso di esclusione e frammentazione sociale (denunciato con molta più forza che nei titoli precedenti) trovano una loro collocazione, pare ingiustificatamente esasperata la vena maschilista di cui è permeato il film. Per non dire del finale apocalittico: se, come nota Ciaruffoli, il sacrificio dei protagonisti fincheriani prima passava per l’allontanamento dalla città/cancro (2), qui si giunge addirittura alla sua distruzione. L’impressione complessiva, in conclusione, è che il cineasta sia giunto ad un punto in cui è difficile spingersi oltre. Meglio allora rallentare ed imboccare una strada laterale…

È di fatto ciò che accade tre anni dopo con Panic Room. La deviazione intrapresa da Fincher è, per sua ammissione, quella di un intrattenimento scevro (ma solo in apparenza) dalle implicazioni sociologiche che fin qui costituivano un corollario difficilmente eludibile della sua opera. Interpretabile alla luce del senso di insicurezza post 11 settembre, il film in effetti non rompe con le opere precedenti: piuttosto, si limita ad adattarne temi e suggestioni ad un plot più minimalista, segnando semmai un ulteriore scarto grazie ad una struttura estremamente rispettosa delle unità aristoteliche di luogo, spazio e azione. Il gioco fincheriano rimane, dunque, ma il regista passa dalla scatola del puzzle alla scacchiera, approntando una lunga (qualcuno potrebbe dire logorante) partita. La metafora degli scacchi regge anche alla prova del rapporto tra i personaggi, che, nel momento in cui l’azione si mette veramente in moto, muovono da una posizione di parità: madre e figlia devono uscire e non possono, i ladri devono entrare e non ci riescono. Una situazione di questo genere si presta ottimamente ad una dinamica di scambio – puntualmente attuata nel momento in cui Meg esce e Burnham entra – integrata da quella, altrettanto consueta in Fincher, della confusione di ruoli: in particolar modo è il personaggio di Forest Whitaker a farsene carico, surrogando di fatto la figura del marito/padre nel momento in cui il suo effettivo titolare è fuori causa e la protagonista non può bastare a garantire l’incolumità propria e della figlia. Per permetterci di apprezzare al meglio questa partita, è però condizione essenziale che l’autore ponga lo spettatore da osservatore esterno, in grado di poter spiare di volta in volta le mosse di ciascun giocatore. Ecco quindi che la seconda novità di rilievo, dopo la scelta di un’inedita compattezza della struttura narrativa, è data dalla rinuncia alla focalizzazione interna, cui questa volta la regia ne preferisce una di grado zero (il che significa che la suspense sostituisce la sorpresa, ciò che può giustificare un nuovo richiamo ad Hitchcock, e in particolare a La finestra sul cortile). Questa considerazione permette di sgombrare il campo dal possibile equivoco relativo all’apparente abdicazione di Fincher rispetto ad un altro dei suoi motivi caratterizzanti: quello del corpo. Sicuramente la fisicità dei personaggi ha un’importanza inferiore in Panic Room rispetto ad ognuno dei film precedenti, ma un corpo c’è comunque: la casa stessa, come fa notare Fabrizio Pirovano (3). Labirinto ma anche luogo che custodisce l’origine del male (il tesoro cercato dal terzetto di intrusi), l’edificio diviene così una credibile metafora del cervello umano, elemento imprescindibile nell’interpretazione dell’umanità paranoica e folle fin qui messa in scena dal regista. Tornando alla questione dello sguardo, l’unione tra un racconto non focalizzato e l’idea che il corpo “importante” non sia più quello del protagonista ma quello della casa suggerisce che, se nei film precedenti lo spettatore era portato all’identificazione con il personaggio principale e all’adozione del suo punto di vista, ora viene spinto a guardare “con gli occhi della casa”. E quanto quest’ultima espressione vada presa alla lettera lo dicono i 2’ 40” del piano-sequenza (costruito in digitale) che va da Meg sul punto di addormentarsi all’ingresso dei ladri, con la mdp che disegna ardite evoluzioni e viola ogni ostacolo architettonico, ricordandoci che gli ambienti bui ed il virtuosismo stilistico sono un altro marchio di fabbrica del nostro.

La svolta: da Zodiac alla notte degli Oscar
Poi però, a distanza di cinque anni, arriva Zodiac, il film con cui Fincher sembra contraddire se stesso. Un arco della diegesi lungo due decadi in un film che dura più di due ore e mezza, diversi personaggi che si danno il cambio al centro della scena, una vastissima mole di informazioni da padroneggiare… E, quel che è peggio per gli amanti di Seven e Fight Club, una pellicola in cui l’azione e la fisicità latitano, al pari del celebrato apparato visivo dell’autore. Si apprezza l’impiego della Thomson Viper Filmstream Camera, ma la fotografia di Harris Savides rischia di rimanere meno impressa nella memoria del ritmo lento del montaggio; ci sono alcune sequenze da ricordare (gli omicidi di Zodiac e la discesa di Graysmith nello scantinato del testimone), ma la maggior parte del film trascorre in anonimi uffici di polizia e redazioni di giornali tra persone che discutono del caso. Il regista insomma raffredda la materia di Seven, spogliando le figure dell’assassino e dei suoi cacciatori di ogni connotazione eroica o antieroica: Bene e Male, qui, sono declinati nel segno della loro banalità. È talmente lontana l’intenzione di spettacolarizzare la materia che non solo viene a cadere la centralità del corpo, ma anche quella del personaggio: per la prima volta, “Fincher nega al pubblico un eroe forte, cui potersi affezionare. […] Questo non significa che Zodiac sia inumano, ma solo che dedica la sua attenzione all’intera tela, al disegno complessivo; è un panorama, non un ritratto” (4). Zodiac è infatti l’affresco della dinamica psicologica collettiva innescata dalla serie di omicidi perpetrati/rivendicati dall’assassino della Bay Area, e trova la sua rotta a metà strada tra il police procedural ed il newspaper movie degli anni Settanta. Non a caso, l’unico film di Fincher la cui vicenda è collocata nel passato ed è ispirata a fatti reali si propone come tardo discendente di Tutti gli uomini del presidente di Pakula, indizio di come il lavoro nei generi di Fincher passi sempre più attraverso uno scoperto gioco citazionistico. In questo senso non va trascurato come nel film abbia un ruolo importante La pericolosa partita di Schoedsack e Pichel, come Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo sia quasi un instant-movie ispirato al caso Zodiac e come il vero ispettore Toschi sia a sua volta servito da modello per lo Steve McQueen di Bullit e per il Michael Douglas di Le strade di San Francisco.

Ricapitolando, alla prova di Zodiac paiono non reggere più alcune delle linee interpretative del cinema fincheriano partorite dalla critica dopo Panic Room: pare il caso, ad esempio, del citato Pirovano, che aveva ricondotto la filmografia del cineasta alle costanti racchiuse nel trittico gioco + corpo + intruso. Ne resistono invece altre, come la coppia di Ciaruffoli (cancro + gioco) e la declinazione della tripla F (Fobie\Fisime\Follie) di Pacilio (5). Anche queste ultime, però, soccombono di fronte a Benjamin Button, film con cui il regista si muove in direzione di Hollywood con un’adesione ai canoni della “fabbrica dei sogni” (lui che fin qui era stato soprattutto un architetto di incubi) che lascia persino sconcertati. Il rischio – è stato scritto – era quello di un soggetto potenzialmente di scarso appeal, ma per evitarlo i cavalli di battaglia fincheriani sono stati abbattuti o esasperati in senso popolare. Esemplare del primo caso è il motivo del gioco, qui abbandonato (almeno finché si parla di gioco diegetico) e sostituito da una casualità – molto macchinosa, come dimostrato nell’episodio dell’incidente di Daisy – più consona allo spirito della favola d’amore. Quanto alla seconda dinamica, essa è più evidente nel richiamo a colleghi quali il Burton di Big Fish, lo Jeunet di Amélie (proprio a proposito dell’incidente) e, soprattutto, lo Zemeckis di Forrest Gump (e sarei curioso di vedere quanti fincheriani avrebbero pensato di trovare questo dvd sugli scaffali del nostro), con cui condivide – guarda un po’ – lo sceneggiatore, Eric Roth. Benjamin è in effetti, come Forrest, testimone più che attore, con la differenza che in Fincher la storia del personaggio fagocita la Storia, tenuta ai margini della narrazione ed utile, tutt’al più, a conferire significati simbolici ad alcuni passaggi cruciali (Benjamin che nasce alla fine della prima guerra mondiale, Daisy che muore mentre sta arrivando Katrina) o a caratterizzare qualche scena (la battaglia in mare contro il sommergibile). Utilizzando il racconto di Fitzgerald solo come spunto iniziale, Benjamin Button è – come si è scritto non a torto – una riflessione sul tempo, sulle occasioni, sulla caducità (oltre che un recupero del motivo dello sdoppiamento del sé). Ma, a prescindere dalla profondità che le si vuole riconoscere, è una riflessione che purtroppo passa quasi interamente sul volto di Brad Pitt, dando perciò argomenti a chi volesse vedere nel film la ritrovata centralità dell’istanza “corpo” ma solo nella misura in cui ogni spettatore fatalmente trascorre la prima ora di pellicola vittima della curiosità di vedere finalmente l’attore “al naturale”. Fincher, già che ci siamo, difficilmente può essere (fin qui) considerato come un direttore di attori; sui suoi set vari interpreti hanno reso molto bene, ma va notato che pochi sono quelli cui è stato chiesto di recitare “contro” i loro ruoli o i loro caratteri abituali. Il discorso vale benissimo per uno qualsiasi tra Morgan Freeman, Michael Douglas, Sean Penn, Edward Norton, Jodie Foster, Forest Whitaker, Jake Gyllenhaal, Robert Downey jr. e, appunto, Brad Pitt (per ovvie ragioni Sigourney Weaver è fuori concorso). Tra quanti hanno avuto personaggi di un certo peso nell’economia di un titolo fincheriano, forse l’unica che può ringraziare il regista per averla fatta nuotare controcorrente è Helena Bonham Carter.

Questo per dire che la favola del vecchio/bambino ha costituito per il regista la possibilità di giocare con l’immagine della star – ed utilizzare le aspettative connesse al divismo come strumento di produzione di un senso emotivo – in un modo e in una misura per lui inediti. Il tutto pare potersi inserire nel quadro di uno spostamento di Fincher dalla categoria di Autore a quella di mestierante di talento. Nel caso, non è detto che debba essere per forza un male, anche se probabilmente i suoi ammiratori della prima ora gradiranno in futuro la scelta di altri modelli...

Note:
(1)    cfr. Emanuela Martini, L'ultimo viaggio della Nostromo, in »Cineforum« n. 320, dicembre 1992, pp. 65-68.
(2)    cfr. Simone Ciaruffoli, David Fincher: il cancro, il gioco e la visione (http://www.sentieriselvaggi.it/articolo.asp?sez0=2&sez1=51&art=1969), 26/04/02)
(3)    cfr. Fabrizio Pirovano, Panic Room (http://www.revisioncinema.com/ci_panic.htm)
(4)    Nathan Lee, To catch a predator (http://www.villagevoice.com/2007-02-20/film/to-catch-a-predator/2)
(5)    cfr. Luca Pacilio, Panico asciutto (http://www.spietati.it/archivio/recensioni/rece-2001-2002/rece-2001-2002-p/panic_room.htm)

 


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