Big Fish PDF 
di Lorenzo De Nicola   

Probabilmente la aspettava da tempo il quarantaquattrenne Burton una sceneggiatura di questo tipo. Giunto al suo nono lungometraggio e a distanza di quasi tre anni dal deludente The planet of the apes (personale remake dello storico e fortunato omonimo film di Franklin J. Shaffner del 1968), che aveva fatto storcere il naso tanto alla critica quanto al pubblico nelle sale, il folletto di Hollywood si ripresenta con una storia che, sin dalle prime battute, possiede le caratteristiche necessarie a far sì che il suo estro artistico e visionario si liberi con tutta la sua forza.

Infatti, parte essenziale della messa in scena sono proprio le storie straordinarie, che dalla realtà prendono soltanto lo spunto, raccontate da Edward Bloom (Albert Finney), un padre fanfarone pronto a sfornare un lungo e appassionante aneddoto di vita "vissuta", ogni qual volta incontri un ascoltatore interessato. Questi brevi episodi fantastici si vanno ad inserire in un canovaccio ormai logoro in quanto abusato negli ultimi anni: il riavvicinamento tra padre e figlio in seguito alla malattia del primo che costringe la rivisitazione, in pochi giorni, di un'intera vita e – spesso – di un rapporto compromesso (si pensi a Magnolia di Anderson, a Le invasioni barbariche di Denys Arcand, solo per citarne alcuni).

Ma la grande abilità dell'ex disegnatore della Disney è quella di riuscire a svincolarsi dal semplice stilema per andare ad abbracciare un discorso più ampio e, senza dubbio, a lui più caro. Burton abbandona ben presto la facile referenzialità autobiografica offerta dalla sinossi (anche lui è rimasto recentemente orfano del padre) a favore di una fin troppo lineare esposizione della sua poetica, della sua personalissima concezione della settima arte. Pertanto il regista non prende le parti del figliol prodigo che, finalmente, superando la sua imbarazzante ottusità riesce a penetrare nel fittizio mondo paterno e, soprattutto, nello spirito che lo muove. Al contrario, sembra volere incitare e spronare l'anziano protagonista, a cui indubbiamente vanno tutte le sue simpatie, a proseguire nel suo ostinato occultamento della realtà. Non a caso il figlio Will Bloom (Billy Crudup) viene a conoscenza della effettiva dimensione in cui si è mosso il genitore durante tutta la vita per vie indirette, e non attraverso le sue parole. Anzi sarà proprio lui che, una volta compresa la missione di quell'uomo che per molti anni non era riuscito a penetrare, si piegherà alla logica della fantasia e della finzione.
E sono proprio fantasia e finzione le due dirette referenti di questo grande elogio alla creazione artistica tessuto da Burton.

La realtà è un'anonima stanza d'ospedale dove Edward Bloom, dopo una vita trascorsa alla ricerca della magia e dei colori, è costretto a morire; il racconto cinematografico è un circo gestito da un licantropo, è un gigantesco pesce che nuota libero in mezzo a decine di ami, è una strega dalle premonizioni sibilline. E il cantastorie Edward Bloom/Tim Burton trova in questo mondo la capacità di sconfiggere la schiacciante quotidianità e - addirittura - la morte, andando a contaminare il mondo reale di Will Bloom/spettatore; nell'epilogo del film i personaggi delle avvincenti fiabe del padre si riversano al suo funerale, anche se privi della protesi spettacolare. Così come il Gilliam/Munchausen (Le avventure del barone di Munchausen, 1989) tentava di convincere un intero teatro della veridicità delle sue prodezze, quindi dell'esistenza di un mondo fantastico oltre alle scenografie di cartapesta, allo stesso modo Bloom/Burton grida ad alta voce la possibilità di una via di fuga, forse l'unica.

Finalmente il regista di Beetlejuice (1988) ritorna ai fasti di un tempo confezionando una pellicola che, malgrado tenda in alcuni punti (soprattutto nel finale) a spiegare più di quanto sarebbe necessario, stupisce per l'incredibile versatilità onirica che la sottende e per il carattere naïf, ormai tratto inconfondibile della firma Burton.

 


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