Urlo PDF 
Marco Doddis   

La trasposizione cinematografica di un testo letterario è stata e sempre sarà un affare delicato. La questione, su cui si sono confrontati semiologi e teorici della settima arte, è arcinota: meglio essere fedeli a quanto l’opera scritta racconta oppure preservarne semplicemente l’intenzione semantica, lo “spirito”, prendendosi tutte le libertà narrative? Il quesito rimbalza anche nella mente dello spettatore uscito dalla visione di Urlo, il film incentrato sulla figura di Allen Ginsberg e sul suo componimento più noto. L’opera, firmata dal collaudato binomio Rob Epstein/Jeffrey Friedman, è infatti un oggetto da prendere con le molle, non fosse altro per il fatto che ambisce a mettere in scena una poesia. Ora, se tradurre un romanzo in immagini è impresa ardua, effettuare la stessa operazione con un testo poetico è all’apparenza impossibile. Questo perché, come ricorda in una battuta del film Jeff Daniels, qui nei panni di un professore di letteratura, “la poesia non si può spiegare”: tentarne una parafrasi, cioè, è già un azzardo. Figurarsi provare a raccontarla per immagini. Tuttavia, non si può certo impedire ad un artista che abbia a che fare con il mondo audiovisivo di esprimere le emozioni suscitategli dai versi. È una scelta personale, difficilmente giudicabile secondo precisi canoni critici, ma legittima.

Dunque, nel caso specifico di Urlo, occorre soffermarsi innanzitutto sulle illustrazioni di Eric Drooker, un pittore ex collaboratore di Ginsberg. Egli, seguendo appunto il proprio istinto e la propria creatività, ha realizzato un lavoro di animazione attraverso cui visualizzare il poema. Poi, l’ottimo montaggio di Jake Pushinsky ha ridotto tale lavoro ad una serie di inserti sistemati opportunamente all’interno della pellicola. Ecco: i disegni di Drooker sono un esempio di visualizzazione emozionale di un testo letterario. È un lavoro rispettabile, quanto ammirevole: le sue sequenze sono affascinanti, a tratti esaltanti. In particolare, risultano riusciti quei frammenti che servono ad integrare le parole del Ginsberg “interpretato”, attorializzato (gli presta volto e voce, in una sorta di racconto-autoanalisi, un James Franco decisamente a suo agio): c’è un verso, ad esempio, di cui viene sviscerata la genesi, in cui l’animazione è funzionale alla spiegazione della nascita della poesia. Si tratta di uno dei passaggi migliori, proprio perché, in questo caso, l’immagine non si pone in posizione subordinata rispetto allo scritto, ma assume quasi una funzione poietica, facendo da tramite tra l’ispirazione interiore di Ginsberg e l’espressione letteraria di quella stessa ispirazione. È un momento, cioè, in cui Drooker smette di esplicitare le proprie emozioni, ma prova ad assumere totalmente la prospettiva dello scrittore. Inutile sottolineare che se il film fosse stato tutto così, staremmo parlando di un capolavoro, almeno dal punto di vista della coerenza estetica.

Invece, la pellicola scricchiola, si presenta quasi come un progetto irrisolto. Forse i due registi, abilissimi documentaristi (molto noti, specie negli Stati Uniti, per i loro lavori su tematiche come omosessualità e AIDS), hanno bisogno di un filo di rodaggio sulla strada della finzione. Sembra che Epstein e Friedman temano di abbandonare il loro terreno preferito: rimangono così a metà strada, prede di una tentazione documentaristica che non fa che appesantire l’opera. Il fatto stesso che il film sia suddiviso in quattro parti difficilmente amalgamabili conferma l’incertezza di fondo degli autori. Ciascuna di esse (la rievocazione della prima lettura pubblica del poema, l’intervista-flusso di coscienza di Ginsberg, il processo, la parte animata) ha una propria dignità. Ma il loro accostamento produce risultati discutibili. Ad esempio, il bianco e nero che riporta dritti dritti al 1955, quando Ginsberg scandalizzò l’America retrograda di quegli anni leggendo pubblicamente Urlo, appare francamente pleonastico, dal momento che sia l’intervista sia i disegni di Drooker riprendono il testo e su di esso si fondano: una semplice voce-off avrebbe reso tutto più snello. La sequenza del processo, poi, è didascalica, verbosa e, a tratti, moraleggiante: la sua presenza neutralizza la verve e l’incanto della parte animata. Quanto al monologo di Ginsberg, l’impressione è che potesse essere almeno dimezzato. Benché la sua efficacia nel tratteggiare la personalità del poeta e il contesto beat generation risulti innegabile, questa parte sarebbe stata forse più necessaria in un biopic tradizionale: un film su un poeta e, soprattutto, su una poesia ne esce inevitabilmente gravato. Questo dell’intervista-fiume, peraltro, è un espediente narrativo già visto: senza andare troppo lontano nel tempo, l’anno scorso, alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia, si vide un documentario che presentava molte affinità con Urlo. Si intitolava Una donna sul palcoscenico ed era dedicato alla vita e all’opera della poetessa Alda Merini. Anche in quel caso, il regista, il pugliese Cosimo Damiano Damato, lasciava la macchina da presa accesa di fronte al volto e al flusso verbale della sua protagonista. La poesia, una firma di grande prestigio, un racconto autobiografico: siamo dalle parti del film di Epstein/Friedman, con la differenza che quello di Damato era un documentario puro, non un “pastiche” come quello dedicato a Ginsberg. Nella pellicola italiana, una scelta come l’intervista, anche se non del tutto efficace ad illustrare lo spirito di una poesia (di un corpus poetico, in quel caso) appariva più adatta nella prospettiva del travelling biografico.

Dunque, Urlo rimane un oggetto ambiguo, disomogeneo, schizofrenico. Un oggetto con molte buone intenzioni, ma con poca anima, che si pone come necessario punto di svolta nella carriera di due ottimi documentaristi. 

TITOLO ORIGINALE: Howl; REGIA: Rob Epstein, Jeffrey Friedman; SCENEGGIATURA: Rob Epstein, Jeffrey Friedman; FOTOGRAFIA: Edward Lachman; MONTAGGIO: Jake Pushinsky; MUSICA: Carter Burwell; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 90 min.

 


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