La falsa questione dell’occidentalità di Akira Kurosawa PDF 
di Eva Maria Ricciuti   

Durante la sua lunga e fruttuosa carriera cinematografica, Akira Kurosawa fu innumerevoli volte definito "il più occidentale dei registi giapponesi", singolare definizione per un artista che fece della sua formazione cosmopolita una cifra stilistica che tutt'oggi lo distingue nel mare della produzione nipponica. Ma ciò che più ci stupisce non è tanto che la critica europea lo abbia così definito, ma che tale giudizio sia stato condiviso persino dai suoi conterranei.

Stupito, contrariato e non poco deluso da questa facile classificazione, lo stesso Kurosawa dichiarò: "Non ho mai fatto film per il pubblico straniero. Se una mia opera non ha valore per il pubblico giapponese, a me - come artista giapponese - non interessa farla". (1)

Quali sono, allora, le ragioni che portarono i critici dell'epoca a definire "occidentalizzata" l'opera di Kurosawa? I giapponesi lo definirono "occidentale" per una semplice ragione: Kurosawa si è sempre rifiutato di accettare la filosofia preminente nel cinema nipponico (il rispetto della tradizione e la continuità dei motivi), preferendo cercare l'originalità. In altre parole, egli fu il primo regista giapponese che si possa correttamente definire un "creatore" (2).

Gli occidentali, dal canto loro, si attribuirono il merito della sua "occidentalizzazione", per una ragione altrettanto semplice: Kurosawa disapprovava l'immagine che i suoi compatrioti davano del Giappone (in particolare l'insistenza nel presentarne la società come malata) e credeva che la principale conseguenza del loro pessimismo fosse di indebolire e rendere inefficaci le tesi morali presentate dal cinema giapponese (3), pertanto tendeva a distaccarsi da questi aspetti della cultura nipponica e ad avvicinarsi (illusoriamente sposandone i motivi) a quella occidentale.

Se è vero che nella sua biografia appare evidente un rapporto conflittuale con la cultura giapponese, è altrettanto vero che Kurosawa può essere definito "occidentale" negli stessi termini "in cui può essere considerato "italiano" William Shakespeare […], o "giapponese" il pittore Vincent Van Gogh. [Nel senso che] Kurosawa è un cittadino del mondo per il quale la cultura non ha confini geografici […]. Homo duplex fin dalle radici, Kurosawa è bifronte, cosmopolita, nell'arte come nella vita" (4). Dalla lettura della sua autobiografia risulta evidente quali fossero gli aspetti della cultura nipponica che il regista riusciva ad accettare con maggior sforzo; in particolare nel capitolo in cui descrive il clima regnante a Tokio il 15 Agosto del 1945 (5) offre un eloquente esempio. Kurosawa ricorda: "fummo tutti convocati nello studio per ascoltare la radio: l'imperatore in persona doveva parlare via etere all'intera nazione. Non dimenticherò mai la scena che vidi quel giorno, camminando per le strade.[…] la gente […] sembrava già pronta per la cosiddetta Onorata Morte dei Cento Milioni. C'era un'atmosfera di tensione e di panico. Alcuni negozianti avevano tolto dal fodero le loro spade giapponesi e stavano seduti a fissarne la lama. Quando rifeci la strada per tornare a casa dopo il proclama, la scena era però completamente diversa. Nelle strade commerciali la gente era tornata allegramente al lavoro, come se si preparasse alla vigilia di una festa popolare. Non so se questo comportamento sia rappresentativo della capacità di adattamento del popolo giapponese o della sua imbecillità. In ogni caso, devo riconoscere che nella personalità giapponese esistono entrambe le sfaccettature. Esistono anche nella mia. Se l'imperatore non avesse pronunciato il discorso nel quale ordinava ai giapponesi di cedere le armi […] la gente di quella strada probabilmente avrebbe fatto come le si ordinava, e si sarebbe suicidata. E probabilmente io avrei fatto lo stesso. Per i giapponesi, l'affermazione di sé è immorale, il sacrificio della persona è la scelta più sensata che si possa fare nella vita. Eravamo abituati a quell'insegnamento, e non avremmo mai pensato di metterlo in dubbio. Mi resi conto allora di una cosa: se non facevo dell'individuo un valore positivo da cui partire, libertà e democrazia sarebbero state impossibili" (6).

Fin da quando era un timido e gracile bambino, ad Akira fu insegnato che il desiderio di affermare se stessi, il prefiggersi delle mete e l'avere l'ambizione e la forza di raggiungerle, è un atteggiamento lodevole. Il padre lo aveva educato secondo una rigida disciplina militare, obbligandolo a seguire lezioni di "arti" (il kendo e la calligrafia) tradizionali ed insegnandogli il senso del sacrificio tipico dei giapponesi (non dimentichiamo che i Kurosawa appartenevano ad una delle più antiche dinastie di samurai), ma fortunatamente nella sua vita il regista incontrò anche uomini (il maestro di disegno, il fratello maggiore, Keinosuke Uekusa e, in campo cinematografico, Kajiro Yamamoto) che sapevano discernere cosa dello "spirito giapponese" fosse importante tutelare e cosa fosse da condannare. Kurosawa, facendo tesoro di quegli insegnamenti, seppe raggiungere una sintesi tra la cultura orientale e occidentale. In lui si scorge un artista che si serve in egual misura della più avanzata tecnologia e della più tradizionale forma di spettacolo giapponese: il teatro Nô.

 

Un uomo che dirige i suoi collaboratori con fermezza e inflessibilità, ma che sa anche dimostrare loro l'affetto di un padre. Kurosawa è il creatore di splendide immagini in bilico tra la delicatezza e la perfezione delle pitture Zen, l'immediatezza della pittura impressionista e la forza esplosiva del colore vangoghiano. Egli è un esperto di letteratura occidentale ed orientale che rivisita e dona vita alle opere dei periodi e degli autori più disparati.
È uno "psicologo" che, con sapienti movimenti della macchina da presa e con la grazia ed il pudore tipici di un giapponese, evidenzia gli aspetti più reconditi del carattere dei suoi personaggi. Akira Kurosawa è un esperto di musica classica, capace di armonizzare lo Stabat Mater di Vivaldi con l'immagine di una vecchina che corre nella tempesta (Rapsodia in Agosto, 1991).

Infine Akira Kurosawa è un creatore. Il peccato di Kurosawa, agli occhi ipercritici dei giapponesi, era di essere insopportabilmente "nuovo e sempre diverso da se stesso" (una caratteristica detestabile nel contesto di una cultura tanto chiusa come quella del Giappone degli anni Quaranta), aspetto che, viceversa, la critica occidentale considerò uno dei suoi punti di forza.
Quando, dopo aver abbandonato la squadra di Yamamoto, tentò la carriera di sceneggiatore e successivamente di regista, Akira Kurosawa dovette affrontare innumerevoli difficoltà; tutti erano concordi nell'affermare che possedeva un innato talento creativo, ma i suoi soggetti erano troppo audaci. Egli non si accontentava di raccontare una storia, non accettava di uniformarsi alla pratica comune, ma voleva piegare il mezzo cinematografico alle sue esigenze, desiderava mostrare al pubblico gli aspetti più nascosti e deplorevoli della natura umana.

Amante e discepolo spirituale di Dostoevskji e Shakespeare, di Ford e Renoir, a Kurosawa interessano, più che l'indagine della realtà, l'introspezione, il destino spirituale degli esseri umani, i grandi temi esistenziali.
Dopo l'esordio con Sugata Sanshiro (Sugata Sanshiro, 1943), girò molti film di ambientazione contemporanea. Suo proposito divenne quello di rompere, una volta per tutte, gli schemi tradizionali entro i quali era rimasto intrappolato il cinema giapponese: la minuta e realistica descrizione dei piccoli avvenimenti familiari e l'atmosfera di sentimentalismo nostalgico e piagnucoloso presente in quasi tutte le pellicole girate fino ad allora, caratteristiche che rischiavano di creare un vuoto tra le nuove generazioni.
Secondo la sua opinione, in perfetto accordo con quella del gruppo dei registi "Neo-romantici" (7) (Keinosuke Kinoshita, Senkichi Taniguchi e altri), al cinema giapponese occorreva più fantasia e audacia (in luogo dei tradizionali modi narrativi), virilità di accenti e robustezza d'impianti romanzeschi (al posto del melodrammatico impianto intimista), fertilità e sovrabbondanza di elementi spettacolari (invece delle estenuanti contemplazioni della pura forma estetica), vivida rappresentazione del brutto (in luogo della sdolcinata pittura della bellezza).

Superfluo dire che questi principî fecero inorridire i critici, che, dal canto loro, accusarono Kurosawa e gli altri di "inautenticità, soggezione ad impulsi estranei alla cultura nazionale, superficialità e esagerazione degli elementi formativi" (8). Solo pochi furono quelli che capirono e lodarono le intenzioni di questi esordienti, tra loro Tsuneo Hazumi, il quale, in occasione dell'uscita di L'angelo ubriaco (Yoidore Tenshi, 1948) di Kurosawa, dichiarò: "[…] è nato un nuovo, importantissimo, stile cinematografico giapponese" (9). Kurosawa riscosse molto successo in Francia, Germania e Stati Uniti.

La critica occidentale lo scoprì e premiò (Leone d'Oro al Festival del Cinema di Venezia e Oscar) grazie al film in costume Rashômon (1950) e solo successivamente si accostò ai suoi film di ambientazione contemporanea. I lavori kurosawiani vennero subito divisi in due grandi categorie: i film in costume (Jidai geki), e i film di ambientazione contemporanea (Gendai geki), conferendo (ancora una volta ignorando la volontà e il pensiero del regista) un inesistente maggior valore ai primi. Kurosawa, in realtà, non diede mai molta importanza alla differenza tra questi generi, egli considerava la scelta dell'uno o dell'altro funzionale alla resa del soggetto: "è il soggetto che impone la forma in cui verrà trattato. Alcuni li si può svolgere meglio e con più libertà ambientandoli nel passato" (10), e se proprio uno dei due generi ebbe il favore del regista, questo fu il film di ambientazione contemporanea (11). Il Kurosawa "realista", quello meno esotico, non riscosse successo in occidente, tanto che ancora oggi la maggior parte della sua filmografia (circa i due terzi), quella di ambientazione contemporanea, è ignorata.
Ancora un equivoco, dunque?

 

Riflettendo bene, lo strano destino dell'Imperatore del cinema giapponese, lo sgomento e la diffidenza che suscitò nei suoi compatrioti e, dall'altro lato, l'entusiasmo che lo accolse in occidente, ma (ironia della sorte) attribuendogli idee e sentimenti non suoi, non è del tutto incomprensibile.
Il Giappone che vide le prime prove da regista di Kurosawa era appena uscito da un'esperienza a dir poco traumatica, era stato coinvolto non senza colpe in un'avventura conclusasi nel peggiore dei modi: la distruzione di una cultura secolare. I giapponesi, per far fronte alla galoppante occidentalizzazione che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale, tentarono con ogni mezzo di tutelare ciò che restava della loro cultura e di ricostruire la loro identità, facendo tesoro di valori quali lo spirito di sacrificio, il rispetto della famiglia e la devozione alla patria.

Kurosawa, nella sua seconda prova da regista, Non rimpiango la mia giovinezza (1946), e ancor più in L'angelo ubriaco, diede voce ad una porzione della popolazione, gli emarginati, che fino ad allora era stata ignorata e che rappresentava la maggior parte degli spettatori. Ben pochi giapponesi si sarebbero potuti identificare nei membri di famiglie felici, negli uomini dall'esemplare condotta e dall'avvenire sicuro dei film incoraggiati e appoggiati dalle case di produzione; molti, invece si riconoscevano nei tristi, brutti, demotivati personaggi kurosawiani.

Questo nuovo, realistico modo di descrivere la società non piacque alla critica giapponese, che non esitò a condannare i film di Kurosawa.
In occidente, quegli stessi anni vedevano il trionfo dei "realismi e neorealismi cinematografici", e il lavoro di un giovane regista nipponico, agli occhi dei grandi maestri europei, poteva aggiungere ben poco a questo filone; fu così che il Kurosawa "neorealista" rimase (e tuttora lo è) sconosciuto. D'altro canto gli occidentali furono incredibilmente affascinati dall'esotismo dei film in costume di Kurosawa, dal mistero dell'etica samurai, da una cultura ancora poco conosciuta, i cui prodotti, data l'impossibilità di coglierne a pieno i significati, venivano ammirati come "puro fenomeno estetico", malgrado possedessero un incredibile potenziale.

La posizione dei cineasti occidentali di quegli anni e dei successivi si può sintetizzare con le parole di Jacques Rivette: "Kurosawa lo abbiamo minimizzato ancora prima di vedere i suoi film: io e Truffaut abbandonammo la proiezione di L'idiota (1951) dopo mezz'ora…solo perché il film non era sottotitolato! Certe dichiarazioni terroristiche fatte allora non dovevano essere riprese come si è fatto". (12) La mia opinione è che il problema dell'occidentalità o meno di Kurosawa si possa risolvere senza dover ricorrere a improbabili congetture, rileggendo questa fondamentale dichiarazione rilasciata dallo stesso regista: "L'arte ha questo di bello, di riuscire a volte a far compiere un passo avanti partendo da tutto quello che ci ha preceduto, a prescindere dalle barriere nazionali" (13).

(1) J. L. Anderson, D. Richie, Il Cinema Giapponese, Feltrinelli, Milano 1961; trad. it. E. Capriolo, pagg. 386-387.
(2) Ivi, pag. 327-333: "Nemmeno un terzo dei film giapponesi parte da soggetti appositamente scritti per lo schermo.[…] Poiché le case cinematografiche non permettono di realizzare troppi soggetti originali, e chiedono materiale già "sperimentato", sono costrette a ridurre continuamente romanzi, nazionali o stranieri, e dal momento che i romanzi adatti allo scopo non abbondano, si trovano il più delle volte alle prese con una gravissima crisi di idee".
(3) Ivi, pag. 319: "Kurosawa condivideva il giudizio espresso da Chikamatsu (il più grande drammaturgo Kabuki del Giappone) a proposito dei lacrimosi drammi nipponici: "Credo che il pathos sia in primo luogo una questione di ritegno…E' essenziale che non si dica di una cosa che è triste, ma che ci ha rattristato". […] Saggio consiglio che raramente è seguito nei film giapponesi".
(4) A. Tassoni, Akira Kurosawa, Il Castoro, Milano 2001, pag. 136.
(5) Cfr. I Grandi Fatti, Editoriale Nuova, Milano 1979, vol.6 fasc. 73: "Il 15 Agosto 1945, una settimana dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 Agosto), l'Imperatore Hirohito annunciò, per radio, la resa del Giappone; il 2 Settembre di quello stesso anno, alle nove del mattino, sulla corazzata Missouri, alla fonda della Baia di Tokio, lo stesso imperatore firmò l'atto di capitolazione".
(6) A. Kurosawa, L'ultimo samurai, quasi un'autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano, 1995, trad. it. di R. Buffagni., pagg. 194-195.
(7) Y. Masumura, Profilo Storico del Cinema Giapponese, Bianco e Nero Editore, s.l., s.d., trad. it. di G. Cincotti, pag. 47.
(8) Ibidem.
(9) J. L. Anderson, D. Richie, op. cit., pag. 388.
(10) A. Tassoni, op. cit., pag. 8.
(11) A. Kurosawa, Prefazione, in J.L.Anderson, D.Richie, op. cit., pag.7: "Nel 1951, quando ottenni a Venezia il Leone d'Oro per Rashômon, osservai che sarei stato più contento e che il premio avrebbe avuto più significato, se avessi fatto o se fosse stato premiato un film che mostrasse il Giappone attuale quanto Ladri di biciclette ha mostrato l'Italia contemporanea".
(12) A. Tassoni, op. cit., pag. 138.
(13) Ivi, pag. 137.

 


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