XIII Far East Film PDF 
Amon Rapp   

Tredicesima edizione. Cinquanta anteprime in concorso, provenienti da dodici paesi differenti. Trentasette film, suddivisi tra due retrospettive, l’una dedicata alla commedia asiatica, l’altra al cinema pink giapponese. Il Far East Film Festival quest’anno aumenta il numero delle pellicole presentate, incrementando leggermente, rispetto all’edizione precedente, anche la qualità delle opere in programma. Siamo tuttavia ben lontani da una selezione equilibrata, capace di coniugare in modo soddisfacente l’esigenza di non tradire lo spirito popolare a cui il Festival è votato, con la ricerca di opere dotate di un intrinseco valore artistico: ancora poche, pochissime, le vette e davvero tante, troppe, le cadute verso il basso, per una manifestazione che si propone come la principale vetrina europea del cinema orientale e che a volte sembra lasciarsi sedurre da criteri di selezione che guardano in maniera eccessiva agli incassi al botteghino.

Tra gli otto film in concorso provenienti dal Giappone si trova senza dubbio l’opera più interessante di tutto il Festival. Villain di Lee Sang-il è un dramma oscuro, attraversato da correnti passionali impetuose e racchiuso in un universo psichico enigmatico. Yuichi, solitario, silenzioso, apparentemente quieto e generoso, uccide in un impeto di rabbia una giovane ragazza, Yoshino, incontrata su un sito web di appuntamenti. Braccato dalla polizia, fuggirà con al suo fianco la sua nuova compagna, consapevole del suo gesto, e nonostante ciò decisa a non separarsi da lui. Da questo nucleo narrativo relativamente convenzionale nascono innumerevoli ritratti morali di maestosa complessità, velati da uno strato di imperscrutabile mistero che consente di intravedere unicamente la superficie esterna dei comportamenti, nascondendo nello stesso tempo i conflitti e le tensioni interiori che ne costituiscono le motivazioni profonde. Lee Sang-il, rinunciando ad ogni eziologia psicologica e razionale dell’omicidio, dà corpo alla rappresentazione tragica della contraddittorietà dell’animo umano e della natura ambivalente del male. Caratterizzato da una regia impeccabile e accompagnato da una colonna sonora ipnotica, Villain si rivela la pellicola migliore presentata nell’edizione 2011 del Far East Film Festival.

Nakashima Tetsuya, autore di Confessions, si aggiudica invece il Black Dragon Award e il premio MyMovies, girando una tragedia della vendetta, chiusa all’interno di una classe liceale giapponese, che vede contrapporsi un’insegnante disperata per la perdita della figlia a due giovanissimi assassini apparentemente privi di alcuna coscienza morale. Opera polifonica, che nasce dall’intrecciarsi delle differenti confessioni dei suoi protagonisti, l’ultima fatica di Nakashima sembra a tratti ricoprirsi di una patina estetizzante di autocompiacimento, che irrigidisce la fluidità della messa in scena e la cristallizza in una struttura eccessivamente rigida e costruita. La fotografia plumbea, caratterizzata da toni tendenti al blu e al nero, il marcato impiego della voce fuoricampo e gli audaci incastri narrativi non fanno che rafforzare questo senso di artificialità: e così, se il tema dell’infinità del male è indagato con estrema intelligenza in tutto il corso del film, la forma che lo racchiude rischia di non essere sempre all’altezza. Tralasciando i deludenti The Lady Shogun and Her Man, di Kaneko Fuminori, innocuo jidai-geki ambientato in un ipotetico passato parallelo in cui le donne sono salite ai più alti posti di comando a causa di un’epidemia che ha decimato la popolazione maschile; The Lightning Tree di Hiroki Ryuichi, storia di un amore impossibile che guarda a Romeo e Giulietta, afflitta da un eccessivo sentimentalismo e oppressa da numerosi stereotipi di genere; e Wandering Home di Higashi Yoichi, pacato dramma umano, che si colloca all’interno dell’insieme dei film dedicati all’alcolismo, senza riservare però grosse emozioni, merita un breve accenno Yakuza Weapon di Yudai Yamaguchi e Tak Sakaguchi. Il film è un divertimento surreale, tanto eccessivo quanto scorretto, che guarda con occhio ironico agli yakuza movies, attingendo a piene mani dalle serie Dead or Alive di Takashi Miike e Tetsuo di Tsukamoto Shinya. Il risultato non convince, le cadute di stile si susseguono una dopo l’altra, e la noia è in agguato dietro ad ogni angolo: tuttavia il film riserva momenti di inattesa comicità, e può essere, per gli amanti del genere, una fonte inesauribile di scene cult.

Il cinema di Hong Kong offre inaspettate sorprese, risollevandosi dalla stagione deludente dello scorso anno e mettendo in campo prodotti di buona fattura. A cominciare da The Stool Pigeon di Dante Lam, thriller nerissimo, violento e serrato, capace di imbrigliare lo spettatore tra rapidi movimenti di macchina e vorticose successioni di quadri, senza lasciargli un attimo di tregua. Il nucleo narrativo del film ruota attorno alle dinamiche che si possono instaurare tra un poliziotto e il suo informatore: rapporto ambivalente, di difficile catalogazione, pronto a trasformarsi perentoriamente da sfruttamento in dipendenza, da protezione in tradimento, da diffidenza in rispetto. Non cedendo mai a una visione manicheistica dell’uomo, Dante Lam tratteggia dei personaggi tormentati, pieni di rimorsi irrimediabili, speranze disilluse, sogni irrealizzabili, incapaci di destreggiarsi in un mondo che li spinge a prendere decisioni contradditorie, condannandoli ad un’inevitabile caduta. Di ben più basso livello il film di chiusura, Punished di Law Wing-cheong, noir a marchio Milkyway Image, casa di produzione fondata da Johnnie To e Wai Ka-fai. Un ricco immobiliarista, una figlia ribelle con problemi di droga, un rapimento sfociato in omicidio e un’inesorabile vendetta: sono questi gli ingredienti per una vengeance story che nonostante le buone premesse non riesce purtroppo a rispettare le attese. Estremamente superficiale nel delineare le psicologie dei suoi protagonisti, apparentemente mossi da un determinismo meccanicistico elementare, Punished non riesce a proporre una chimica delle passioni convincente, offrendo il ritratto semplicistico di un sentimento che recentemente ha invece prodotto, almeno in Asia, risultati di gran lunga più elevati. 

Nel gran numero di commedie, spesso di scarso livello, presentate quest’anno al Far East (pensiamo ad esempio ai pessimi Romantic Heaven di Jang Jin e Night Market Hero di Yeh Tien Lun), brilla per qualità e freschezza l’ultimo film di Johnnie To, Don’t Go Breaking My Heart, ennesima variazione sul triangolo amoroso girata con estrema intelligenza ed eleganza. In una Hong Kong aristocratica, teatro d’affari e di lussi sfrenati, si gioca la partita tra Qihong, architetto emergente caduto in disgrazia, e Shen-ran, giovane manager dell’alta finanza, entrambi pronti a tutto pur di conquistare il cuore della bella Zixin, tanto candida e sincera quanto eternamente indecisa. I due contendenti hanno personalità estremamente diverse e le loro strategie di seduzione non possono che giocarsi su versanti diametralmente opposti. Da questo rapporto a tre scaturisce un susseguirsi vorticoso di sfide all’ultimo anello, con corteggiamenti spinti all’eccesso e dichiarazioni d’amore sopra le righe: ma quel che stupisce è la relativa dolcezza con cui il regista inquadra le singole storie, i tentennamenti, i tentativi, e i relativi fallimenti, che, trasportati in una corrente rapida e leggera, traghettano lo spettatore direttamente nel cuore dei protagonisti. Da segnalare anche The Drunkard di Freddie Wong, che tra i vicoli bui di una Hong Kong degli anni Sessanta segue le alterne vicende di un anziano scrittore alcolizzato, Mr. Lau, alla ricerca di una realizzazione artistica che tarda ad arrivare. Trasportati dalle parole in prima persona di un’onnipresente voce fuori campo, seguiamo il suo peregrinare tra lavori, case, donne, bottiglie. In una vita che si avvolge nel ritorno dell’uguale dopo ogni fallimento, fuga ed oblio, Mr. Lau sembra non riuscire a trovare un approdo sicuro, se non nella calma quiete del suo bicchiere, dove ancora può sperare, o forse dimenticare, un più roseo futuro.

La selezione relativa alla Corea del Sud propone due delle pellicole migliori in concorso. Bedevilled di Jang Cheol-soo si presenta come complesso dramma familiare stracolmo di odio e di rabbia, per poi tramutarsi nel più classico degli slasher movies. Hae-won decide di passare un periodo di riposo su Mundo, una desolata isola del sud della Corea: ad invitarla, una sua amica d’infanzia, Bok-nam, che da tempo richiede la sua presenza. Sull’isola trova una comunità patriarcale oppressiva, dominata da una cultura della violenza e del sopruso nella quale le donne prive di qualsiasi difesa come Buk-nam non possono che rimanere in balia dell’efferatezza degli uomini e dell’omertà dei membri più anziani del gruppo. Ma Hae-won stessa non è completamente innocente, e il suo comportamento non sarà privo di conseguenze. Film dalle molteplici sfaccettature ed implicazioni, Bedevilled si rivela un’indagine sulla responsabilità dell’azione umana che, se si ritrova colpevole nel compiere il male, lo è anche nel momento in cui si ritrae e rinuncia a realizzare il bene. The Unjust di Ryoo Seung-wan è invece una vera sorpresa: poliziesco durissimo, affacciato su un’umanità interamente affogata nella corruzione, in cui l’arrivismo, il potere e il denaro dominano incontrastati, il film di Ryoo Seung-wan ritrae il lato oscuro della giustizia umana, contaminata e deviata dai desideri degli uomini incaricati di metterla in atto. Un serial killer continua a stuprare e uccidere numerose bambine, mentre la polizia brancola nel buio. Il capitano di polizia Choi Cheol-gi, invischiato in loschi traffici con la malavita locale, viene incaricato di trovare un capro espiatorio per mettere a tacere l’opinione pubblica. In una spirale di ricatti, abusi e sopraffazioni The Unjust ci conduce verso un finale beffardo e senza speranza, il cui senso più che rimandare ad un’arcana provvidenza, rivela l’ironia della sorte, che nel prendersi gioco degli uomini li interroga sul senso delle loro azioni e sulla legittimità dei mezzi impiegati al mutare del significato dei fini a cui sono indirizzati.

A concludere la rassegna delle pellicole degne di nota nella sezione sudcoreana troviamo Haunters di Kim Min-suk e The Man From Nowhere di Lee Jeong-beom. Il primo è un action fantasy lontano dai cliché di genere e profondamente immerso in una visione nichilistica dell’esistenza, che rivisita in chiave originale la classica lotta tra supereroi: qui si scontrano, infatti, un sensitivo dotato di poteri ipnotici in grado di piegare le persone al proprio volere e un giovane ragazzo qualunque, capace inspiegabilmente di resistergli e di rinascere dalle proprie ceneri. Il loro incontro sarà l’attuarsi di un destino con conseguenze ben più ampie di quelle che loro stessi si immaginavano. The Man From Nowhere è invece un action thriller di grande tensione che ruota attorno al mistero del suo protagonista, Tae-sik (Won Bin), ex agente segreto ora impegnato in una guerra personale per salvare una bimba, rapita da una banda di criminali dedita al commercio di organi. Ottimamente girato, con memorabili sequenze di combattimento all’arma bianca, nelle quali la brutalità e il sangue riescono ad elevarsi a seducente elemento estetico, il film di Lee Jeong-bom convince e coinvolge fino in fondo, grazie anche al magnetismo che Won Bin riesce a far emanare al personaggio che interpreta. E se le commedie Villain and Widow di Son Jae-gon, Cyrano Agency di Kim Hyun-seok e The Showdown di Park Hoon-jung sembrano non essere altro che discreti prodotti di intrattenimento, estremamente deludente è stato invece l’attesissimo cortometraggio di Park Chan-Wook (co-diretto con il fratello Park Chan-kyong), Night Fishing, girato, a quanto pare, unicamente con l’ausilio di iPhone 4, e già vincitore dell’Orso d’oro a Berlino: sciamanismo, rievocazioni spiritiche e atmosfere spettrali non bastano a risollevare un film di cui, francamente, si fa fatica a cogliere il senso e la necessità. Letteralmente spezzato in due, sia sul piano della forma che del contenuto, l’ultima opera di Park Chan-Wook sembra un esperimento pretestuoso, incapace di fondere in un armonioso flusso narrativo e visivo quanto appare sullo schermo.

Concludendo la rassegna dei film in concorso, la Cina si aggiudica il primo e il secondo premio del pubblico con i film Aftershock e Under The Hawthorn Tree. Il vincitore della tredicesima edizione del Far East Film Festival è infatti l’ultimo film di Feng Xiaogang, Aftershock, affresco corale di una famiglia divisa per decenni a seguito del devastante terremoto di Tangshan del 1976. Estremamente spettacolare nelle sue scene iniziali, ispirate al migliore (o peggiore) catastrofismo hollywoodiano, il film funziona meglio nella parte centrale, in cui al posto della retorica di regime subentra l’intrecciarsi delle vite dei singoli individui, incapaci di dimenticare il loro passato e costretti ad affrontare un mondo in rapidissimo cambiamento. Under the Hawthorn Tree, che si piazza al secondo posto nella classifica di gradimento del pubblico, è invece l’ultimo lavoro di Zhang Yimou, delicata e sommessa storia d’amore ai tempi della rivoluzione culturale maoista. Lei è una giovanissima insegnante mandata nelle campagne per completare il proprio processo di rieducazione; lui è un geologo che saltuariamente frequenta la casa dei contadini che la ospitano. Tra i due l’attrazione reciproca nasce immediatamente, ma il loro sogno sarà destinato ad infrangersi contro le onde del destino. Il regista è abilissimo nel dipingere un amore che ha tutte le caratteristiche della purezza assoluta e che racchiude in sé la volontà di durare in eterno: a volte, tuttavia, il candore dei desideri e delle speranze dei due innamorati rischia di decadere in un ingenuo infantilismo, inadatto a testimoniare la potenza dei sentimenti che sembrano legarli in maniera indissolubile. Resta l’eleganza della messa in scena e il dispiegarsi lieve delle emozioni, che toccano nel profondo e non possono lasciare indifferenti anche dopo l’uscita dalla sala. Di grande raffinatezza formale e di profondo impatto emotivo è, infine, anche il nuovo film di Li Yu, The Buddha Mountain, un dramma adolescenziale ambientato nella Chengdu contemporanea. Tre giovani amici, tutti con importanti problemi familiari alle spalle, decidono di trasferirsi insieme in un nuovo appartamento, nel quale si ritrovano a convivere con una difficile proprietaria, cantante d’opera in pensione, segnata irreparabilmente dalla perdita del figlio. Disagi esistenziali, emozioni trattenute, senso di vuoto: Li Yu confeziona un commovente confronto generazionale nella Cina di oggi, sempre più esposta alla solitudine e alla necessità di ritrovare il calore dei contatti umani.

Pensando alle retrospettive che il festival ha dedicato quest’anno al cinema pink giapponese e alla commedia dell’estremo oriente, non può non nascere un senso di rammarico e una sensazione di occasione perduta, nel constatare il basso profilo delle opere presentate in programma. Veramente rare le pellicole memorabili o solamente degne di nota, soffocate perlopiù da scelte discutibili che hanno sacrificato, in particolar modo nella sezione “Asia Laughs”, la qualità al facile ed innocuo divertimento di superficie. I pink movies, film peculiari della cinematografia giapponese, sono costruiti solitamente attorno ad una labile struttura narrativa, spesso semplice pretesto per mettere in mostra corpi nudi e atti sessuali. I pinku eiga, tuttavia, fin dalle loro origini, nonostante la breve durata, quasi mai superiore ai sessanta minuti, e i bassissimi costi di produzione, hanno portato avanti in qualche caso un’ardita sperimentazione narrativa e formale, grazie alla libertà quasi assoluta di cui godevano gli autori incaricati di girarli. Tra i lavori presentati nella retrospettiva, spicca Lead Tombstone di Koji Wakamatsu sorprendente gangster movie degli anni Sessanta, che a dire il vero ben poco ha a che fare con i più comuni soft-porno giapponesi. Spietato all’inverosimile, Kariya Mitsugu è un cane sciolto, capace di tradire ed uccidere senza provare alcun rimorso di coscienza: ritratto di rara crudeltà, Lead Tombstone disegna un mostro morale, richiamando alla mente le opere di entomologia criminale di Shoei Imamura. E se Wet Peony di Umezawa Kaoru si distingue per la sua ricerca visuale e le sue dilatazioni narrative, e i ripetitivi Rape Case - No Indictment di Watanabe Mamoru e Slow Motion di Enomoto Toshiro sono rappresentativi di un cinema fatto ad uso e consumo di un pubblico maschile, Adultery Diary di Sato Toshiki e High Noon Ripper di Takita Yojiro dimostrano uno sforzo maggiore nell’integrare le sequenze di sesso, tipiche dei pinku, in una struttura testuale che fa propri elementi provenienti da altri generi cinematografici, quali l’horror e il thriller.

Per concludere, l’omaggio alla commedia panasiatica ha purtroppo deluso fortemente le aspettative. Non più che discreti gli omaggi a Michael Hui e Segawa Masaharu, le cui opere si sono rivelate discontinue e, a volte, estremamente semplici e scontate. I film di Hui come Chicken and Duck Talk, guerra all’ultimo sangue tra un ristorante tradizionale cantonese e un moderno fast food occidentale, e The Private Eyes, imprese rocambolesche di un gruppo di investigatori privati, hanno sì fatto sorridere, ma non sono mai andati al di là di una comicità di superficie, priva di qualsiasi sottofondo di critica sociale. Lo stesso discorso vale per le opere di Masaharu: A Man’s Weak Point e Topsy-Turvy Journey richiamano alla mente la commedia sexy all’italiana degli anni Settanta, rappresentando le disavventure di un poliziotto della buoncostume ossessionato dalla pornografia e di un capotreno alla prese con numerosi problemi sentimentali, mentre The Drifters: Hey Suckers!! Here We Come!! si è dimostrato stracolmo di luoghi comuni (uno su tutti, le torte in faccia!). In mezzo a molti altri titoli facilmente dimenticabili, fa eccezione Pedicab Drivers di Sammo Hung, commedia anni Ottanta proveniente da Hong Kong, vera e propria commistione di generi differenti, che ha saputo amalgamare sapientemente comicità, azione, melodramma, tragedia e arti marziali in un cocktail esplosivo che ha divertito e commosso allo stesso tempo. Ritmo sfrenato, personaggi coinvolgenti e ottime coreografie negli scontri hanno dato vita all’unica pellicola di “Asia Laughs” degna di rimanere stampata nella memoria del pubblico.

 


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