Gomorra: sociologia cinematografica del male PDF 
Anna Barison   

ImagePoteva essere una scommessa difficile da vincere, di sicuro è stata un’avventura intrapresa con la consapevolezza di rischiare molto. Ma, nonostante tutto, Gomorra non ha deluso le aspettative ed è diventato un film potente, carico di una forza espressiva magnetica e innovativa, non solo per la tragicità e la ferocia della materia trattata, ma anche per aver segnato l’inizio di una nuova fase del cinema italiano, un cinema che aveva l’assoluta necessità di ritrovare quella potenza evocatrice persa negli ultimi anni, oscurata dalla povertà dei mezzi espressivi e dalla claudicante ricerca di nuove idee. Gomorra è stato in primis un libro epocale, complesso ma allo stesso tempo travolgente, passato di mano in mano, come a sancire che l’indiscussa popolarità delle cronache di camorra non è solo un fatto riservato ai telegiornali, ma anche ad un popolo di lettori attento e partecipe. Saviano ha ripercorso molto intimamente il suo vissuto, scrivendo un libro che non è solo una denuncia accorata e minuziosa dei meccanismi del sistema camorristico, ma anche e soprattutto un microcosmo silenzioso di uomini e donne, tutti accomunati dagli stessi obiettivi: la fame di soldi e potere e la perversione di una coazione a ripetere atti criminosi, sotto il comando di un personalissima fede fondamentalista che infervora le menti al grido di “Business, Business, Business”. Matteo Garrone ha però estrapolato da quest'opera l’aspetto più intimista della narrazione. Lavorando per sottrazione, abituato com’è ad un minimalismo lineare e distaccato, ha scelto cinque storie parallele in cui far agire i suoi protagonisti, gli ultimi degli ultimi, gli “schiavi” di quell’oligarchia mafiosa che trasforma i sobborghi di Napoli in un teatro di guerra. Perché, come ci viene ricordato nel film per bocca di uno di loro, “Siamo in guerra!”.

ImageI luoghi sono il punto di forza di Garrone. Da qui nascono i suoi soggetti e iniziano a prendere forma i suoi personaggi. Se nelle sue opere precedenti erano le periferie delle grandi città o la provincia del Nord Est a creare una storia, ora è Napoli la vera protagonista, una città che risulta però lontana dall’immagine che i media ci vogliono raccontare. Qui non si vedono rifiuti per strada o la tortuosità delle strette vie del centro storico, qui si vedono Secondigliano e Scampia, il quartiere del famoso complesso residenziale “Le Vele”, e le strade provinciali di Casal di Principe, altra roccaforte delle famiglie camorriste, locations che hanno il pregio di essere raccontate con una nitidezza esasperata. Gli elementi superflui tendono a diradarsi a poco a poco, e così vediamo una Napoli che sembra il deserto iracheno, dove il sole brucia e inaridisce ogni cosa, e dove le abitazioni sembrano distrutte dai colpi dell’artiglieria pesante per il grigiore e lo squallore che le fa assomigliare a delle catapecchie sul punto di crollare. Il vuoto domina il paesaggio, un paesaggio ricco di elementi allegorici, in cui la decadenza dei palazzi e delle strade riproduce l’anima dei protagonisti. Questa è un’umanità annientata e inaridita nella loro essenza, le figure si aggirano come spettri, svuotati come ombre, in balia di un conflitto violento che a poco a poco li farà crollare come sotto le bombe. E non c’è differenza se a sparare sono Ciro e Romeo, due ragazzi che decidono di diventare “anarchici” e fare di testa loro, o Totò, adolescente che deve decidere il suo ruolo nella guerra tra clan. Uomini - come il postino Don Ciro, il sarto Pasquale “venduto” ai cinesi e lo stakeholder dei rifiuti - e donne (Maria, la moglie del boss) sono tutti nello stesso vortice di autodistruzione, in un paesaggio che li racchiude e li stritola come in una morsa. Garrone utilizza la m.d.p. senza filtri e con un punto di vista molto realistico, ma la fotografia del fidato Marco Onorato, dai toni acidi negli esterni e cupi negli interni, sembra voler creare uno straniamento in chi guarda, giocando sul piano simbolico per offrire una connotazione che sfiora la dimensione dell’irreale e dell’ignoto. Basta soffermarci sulla scena iniziale del film per capire quest’atmosfera. Siamo in un centro benessere, le lampade u.v.b., con la loro luce artificiale di un blu fluorescente, trasfigurano i volti dei carnefici e delle loro vittime, tutti sovraesposti alla luce, bruciati dalla freddezza della morte. L'azione, tuttavia, anche in questi momenti concitati, è raramente scandita dai tagli sul movimento tipici dell'action movie, il montaggio è lineare e la musica non è mai over ma sempre intradiegetica, una musica neomelodica che scandisce il ritmo delle pistole che sparano. Garrone sa azzerare l'iconografia del mafia movie, eludendo le scontate ascendenze coppoliane, per regalarci una visione inedita del problema.

ImageL’intelligenza dell’autore nel raccontare la depravazione è stata anche quella di evitare la morbosità nella violenza e copiosi spargimenti di sangue. Il sangue che vediamo scorrere è “autoriale”. Infatti, a differenza di tutti i film di genere, che si focalizzano più sulla visione gore che sui contenuti, qui il sangue si vede ma non diventa il parametro per giudicare la follia omicida (ovvero più scorre e più i mandanti sono ignobili), è un semplice artifizio scenografico mai ingombrante o irritante, inserito in maniera ponderata nel tessuto narrativo. In qualche modo viene raccontata una realtà che contiene in sé istanze proprie del cinema sociale, ma allo stesso tempo si colloca su un piano di finzione attraverso la scenografia e la fotografia, che contribuiscono a creare un’atmosfera rarefatta e ipnotica. I volti, invece, sono pedinati con la camera a spalla che tanto sembra essere cara al regista fin dagli esordi, come se volesse entrare nell’anima di chi ha di fronte, per cercare di carpirne la vera natura e analizzarla come nella prassi psicanalitica. Un espediente usato per cogliere in ogni minimo movimento del viso un’emozione, riconducibile ad un più profonda caratteristica psicologica. Lo spettatore entra infatti nelle dinamiche private dei protagonisti, ma il regista è ben lontano dal disvelarcene altri tipi, ovvero quelle proprie dell’ingranaggio malavitoso. Infatti, le storie interne ai clan sono solo abbozzate: come ha spesso ripetuto Garrone, questo non voleva essere un film di denuncia (come invece è il libro, che parla attraverso i nomi e i cognomi dei boss), ma un affresco antropologico che si riversa più sul filone dell’analisi psicologica che sui macabri omicidi di camorra. Un’impostazione stilista molto personale di denunciare il fenomeno, ma anche un escamotage per analizzare la banalità del male attraverso gli occhi dei suoi artefici. Per certi versi il plot narrativo risulta quindi slabbrato e l’intreccio si snoda senza soffermarsi sui rapporti di causa ed effetto, ma su delle macro-storie che, specialmente in quella del commercialista-postino del clan, sono comprensibili solo attraverso la lettura preventiva del libro. Tutte le vicende procedono verso una risoluzione del conflitto narrativo, se non chiarificatore dei destini di ciascun personaggio, quantomeno definito, costringendo un po’ l’ultima parte del film a obbedire ai rapporti di causa-effetto tra le sequenze fino a quel momento ignorati.

ImageStorie di uomini e donne, dicevamo, piccoli e grandi drammi si dipanano per accompagnare lo spettatore in un viaggio senza ritorno, una strada in discesa in cui l’impegno principale dell’autore sembra essere quello di porre una totale attenzione alla scelta dei suoi personaggi. Garrone porta sullo schermo persone del luogo, attori che sembrano uomini della strada, alcuni che hanno cominciato a fare teatro nel carcere di Volterra e Rebibbia, o altri ancora, come Totò-Simone, che appartengono ad esperienze artistiche pedagogiche locali, come una realtà teatrale che avviene a Scampia e che si chiama “Revuoto”, o Ciro, per esempio, alla sua seconda volta sul set. E poi c’è la forte presenza degli attori del teatro napoletano (Salvatore Cantalupo e Gianfelice Imparato, rispettivamente il sarto e il postino), nonché Toni Servillo, unico attore che ha raggiunto la notorietà grazie al cinema. Persone autentiche che recitano portando se stessi di fronte all’occhio attento della m.d.p., parlando un linguaggio dalla forte connotazione dialettica, tanto da rendere necessario l’inserimento dei sottotitoli per chi non capisce questa lingua tanto colorita quanto incomprensibile. Del resto l’unico che comunica in maniera non dialettale è Toni Servillo, che così facendo risulta slegato dagli altri attori e dall’armonia della storia, nonostante l’indiscussa cifra attoriale che lo contraddistingue. Tuttavia, Garrone si riconferma eccellente nel dirigere i suoi attori “per caso” con una maestria degna di nota, che rimanda al cinema rosselliniano di Paisà o al naturalismo di Bresson, fino alla più recente indagine sulla tragicità del quotidiano dei fratelli Dardenne. I “ragazzi di vita”, come li definiva Pasolini, stanno sulla scena portando un valore aggiunto al film: ovvero il loro trascorso di vita. Chi ha alle spalle vicende personali di micro-criminalità, spaccio di droga, furti, o più semplicemente un lavoro onesto, come Ciro, che vende frutta e verdura per conto dello zio. Facce che colpiscono per la loro intensità e per aver addosso le tracce di un vissuto segnato dalla violenza e dalla difficile possibilità di riscatto. L’unica facoltà che è rimasta loro è quella di sognare, e così, quando Ciro e Romeo entrano nella Villa distrutta del Boss Schiavone, si divertono a sparare come faceva Tony Manara in Scarface.

ImageNel film sono proprio i più giovani ad essere l’ultimo tassello di una piramide criminale la cui cima è rappresentata dal potere assoluto dei boss, che, lontano dall’iconografia classica dei mafiosi rudi e contadini, vogliono invece apparire simili ai personaggi della tv o del calcio, in una nuova vocazione estetizzante che ha tutti i vezzi del caso. E così il barbiere viene sostituito dal centro estetico e una nuova iconografia sembra imporsi nell’immaginario cinematografico. L’autore, spingendo i suoi attori alla recitazione, riesce a raccontare ciò che è sempre stato sotto i nostri occhi, ma, al contempo, svela una dimensione così profonda, sconvolgente e rivelatoria da esserci sempre sfuggita. La potenza stilistica di Garrone sta proprio nell’autenticare le sue creature, facendo del suo cinema il luogo d’adozione degli ultimi e dei diseredati, grazie ad una capacità innata di essere conciso e profondo, sintetico e preciso, tratteggiando una situazione o una condizione di vita con una manciata d’inquadrature. Non c’è giudizio nel riprendere queste vicende umane: porre delle domande è molto più sensato che dare delle risposte, e in questa onestà intellettuale percepiamo tutta la sottigliezza dell’autore. Lo spettatore osserva da lontano la storia e, anche se intravediamo un punto di vista, Gomorra risulta per certi versi asettico e distaccato, girato respingendo qualsiasi forma di commento autoreferenziale e annullando le pretese moralistiche, come se gli spettatori vivessero un’allucinazione collettiva ma senza essere consapevoli del motivo. Proprio in questa dosata ricerca emozionale ritorna la fascinazione dell’autore per il documentario contro la retorica della drammaticità coatta tipica di certa filmografia di finzione. L’interesse per questi emarginati è più sociale che affettivo, come se lo schermo cinematografico delimitasse le reali affezioni dell’anima dei protagonisti. Il coinvolgimento affettivo è comunque percepibile, anche per evitare il cronachismo da reportage giornalistico che rischiava di avvicinare il film ad un'opera troppo simile al libro. In questa visione comprendiamo un pessimismo senza sbocchi. Il Sud è profondamente legato alle tradizioni e la famiglia è ipocritamente considerata il fondamento della società, ma, il più delle volte, si trasforma in un’associazione a delinquere. Anche la religione assume le sembianza di un viatico per l’anima, usato però dalla camorra per pulire la propria coscienza dal sangue versato. Assistere ad un affresco così impietoso non ci rassicura, anzi capiamo che la speranza non abita più a Scampia, e il disagio di essere spettatori impotenti ci terrorizza ancora di più.

 


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