Antichrist PDF 
Matteo Marelli   

Sotto la coscienza critica della follia e le sue norme filosofiche o scientifiche, morali o mediche, una sorda coscienza tragica non ha cessato di vegliare
(Michel Foucault )

Lascia ch'io pianga
Mia cruda sorte,
E che sospiri
La libertà

(George Frideric Handel )

Lars von Trier è una figura anomala nella realtà cinematografica contemporanea. In un panorama caratterizzato dalla separazione sempre più netta fra la teorizzazione e la prassi, dove il teorico si configura sempre più come uno studioso puro, estraneo al mondo del cinema, e i cineasti si arrischiano sempre meno a teorizzare, von Trier coltiva accanto all’attività registica un’accesa passione speculativa che va ben oltre le semplici riflessioni sul proprio mestiere e le dichiarazioni di poetica. Il percorso artistico di von Trier è segnato da proclami, manifesti, decaloghi, redatti ed enunciati con tono saccente, provocatorio, dissacrante, ma che esprimono la volontà di riflettere sulle modalità di fare cinema all’interno di un sistema produttivo fortemente standardizzato, dove le regole di profitto prevalgono sulla sperimentazione. Tacciato, a ragione, spesso e volentieri, di contraddire con i propri film tutto il corpus teorico poco prima elaborato in sede speculativa: basti pensare a come vengono esasperate e snaturate certe norme previste dal Dogma, il “voto di castità” vontrieriano, come ad esempio l’abbattimento del set cinematografico che raggiunge la sua estrema conseguenza in Dogville. Se da un lato, quindi, è lecito considerarlo come un intellettuale ambiguo e che pecca d’incoerenza, dall’altro non si può negare che von Trier sia un rivitalizzante per l'asfittica cinematografia odierna, banale, povera, capace di raccontare storie soltanto attraverso la chiave di uno stupido minimalismo quotidiano. All’interno d’una realtà cinematografica in cui ormai prevale l’omologazione e il conformismo, dove sembra che i registi siano incapaci di andare al di là della cronaca, quasi non sentissero più l’esigenza di mettere in forma, di raccontare temi più alti, von Trier continua testardamente a realizzare opere capaci ogni volta di spiazzare e disorientare il pubblico e la critica, che si insinuano come un agente patogeno nel corpo della produzione spettacolare.

Von Trier, con il suo ultimo film, torna a percorrere sentieri già battuti, quelli affrontati per la regia di Medea, il suo terzo lungometraggio che recuperava, rielaborandola, la sceneggiatura (mai girata) di Carl Theodor Dreyer. Per Antichrist, lavorando sull’elaborazione del lutto di una coppia in seguito alla scomparsa del loro unico figlio, caduto dalla finestra della propria camera mentre i genitori stavano facendo l’amore, von Trier può approfondire la perlustrazione del Tragico in senso assoluto, a-cronico, ancestrale. Come nel testo euripideo anche in Antichrist è messa in scena l’eterna e insolubile opposizione tra reale e trascendente, il dibattersi tra razionalità e irrazionalità, lucidità e insensatezza. La coppia vontrieriana, interpretata da Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg, ricorda quella della tragedia greca, il loro amore, come quello tra Giasone e Medea, è il conflitto tra due umanità inconciliabili, incomunicanti, che possono distruggersi a vicenda, ma non trovare mai un punto di mediazione. Lui è l’emblema di un mondo razionale, laico, moderno, freddo e pragmatico, incarna la razionalità, la coerenza cieca, non capisce nulla al di fuori di un pensiero logico scisso dalle cose, privo di forza affettiva, che rende le sue azioni sempre finalizzate. Il mondo, ai suoi occhi, ha perduto la sua dimensione metafisica, è rimasto pura fisicità. Il male è stato rimosso dall’approccio utilitaristico alla vita. La sua è una figura ricorrente nella cinematografia vontrieriana, quella del personaggio asservito a regole imposte ed autoimposte. Lei è un groviglio di emozioni e sentimenti complessi, che affiorano una volta messa di fronte alla perdita del figlio. Mentre lui trova il modo di normalizzare la propria disperazione, in lei, che non occulta la propria sofferenza e non si finge superiore alla sua natura, si fanno avanti sensazioni e affetti che scaturiscono dalle zone più oscure dell’essere, e che non ammettono razionalizzazioni. È il dolore che esige venga lasciata una traccia della sua presenza.

La follia che cresce in lei è una realtà tragica, un’assoluta lacerazione che introduce ad un’altra dimensione dell’esistenza. Lui cerca di dipingerla come s-ragione, cioè come vuota negatività della ragione, per esorcizzarla, controllarla, correggerla, rieducarla secondo le regole e la morale del corretto ordinamento sociale. Un atteggiamento, il suo, dietro il quale si cela  tutto il pensiero etico della colpa, dell’errore e della condanna. Lui, psicoterapeuta, si crede più forte e, contravvenendo a ogni deontologia professionale, decide di curarla facendole affrontare di petto tutte le sue paure, cominciando col portarla nel luogo che più teme: la foresta di Eden, dove si trova il rifugio nel quale lei ha scritto la sua tesi. Ma la natura sfuggita all’addomesticamento, con il suo disordine, il suo furore, la sua ricchezza di mostruose impossibilità, fa divampare la sua follia, legata alle forze più oscure, più notturne del mondo. Una follia che è la manifestazione di un cupo disordine, di un caos semovente. Sembra quasi che il suo delirio fosse già nascosto come un segreto, come una verità inaccessibile, nelle viscere della terra. Immersa in una natura dispiegata in piena libertà, lei ritrova verità dimenticate benché manifeste, la potenza archetipica della femminilità generatrice, fonte di vita e morte. Emblematica a questo proposito l’immagine ripresa dall’alto di Charlotte Gainsbourg sdraiata sull’erba che l’avvolge sino quasi ad inghiottirla. La tragica drammaticità della natura non si manifesta solo all’interno della foresta, ma la si può evincere già da alcuni dettagli rintracciabili nella primissima parte del film, come ad esempio quel lento avvicinamento agli steli dei fiori posti in un vaso nella camera d’ospedale in cui è ricoverata la protagonista, che, grazie alla potenza del primissimo piano, diventano, sullo schermo cinematografico, un misterioso paesaggio in cui si annidano sorde minacce, anticamera del cupo in agguato costante. Una modalità di ripresa che ricorda le soluzioni adottate da David Lynch in Velluto blu. In entrambi i film l’occhio della macchina da presa si fa “essenzialmente il tramite rivelatore di tutta una vita occulta con la quale ci mette direttamente in relazione” (1). L’aspetto perturbante dell’elemento naturale si fa più violento quando questo diventa predominante. E questa sensazione è data dal fatto che lo vediamo attraverso gli occhi del marito, l’uomo di ragione e di saggezza che ne percepisce solo degli aspetti frammentari, e perciò tanto più inquietanti.

L’orrore cresce lentamente. Sull’esempio di Roman Polanski e di William Friedkin, anche Lars von Trier lo fa nascere prima di tutto da presagi inquietanti, da atmosfere ammorbate: nel quotidiano scopre volti logori, l’impotenza frustrante della scienza di fronte al dolore disperato per la scomparsa e per il senso di colpa. Sembra quasi di assistere ad un kammerspiel allucinato, virato verso atmosfere orrorifiche. Durante tutta la prima parte si accumulano elementi minimi e all’apparenza insignificanti, l’occhio del regista scruta l’intimità dei suoi personaggi per trovarvi le insignificanze più stridenti. Dettagli sparsi, che però sommati rivelano un terrore che si cela dietro quelle che potrebbero sembrare semplici disattenzioni domestiche, come sembrano dimostrare quelle polaroid, risalenti ad un soggiorno estivo trascorso dalla madre insieme al figlio, nelle quali il bambino mostra sempre di indossare le scarpe alla rovescia. Un particolare su cui è gettata una luce sinistra dall’esito del referto autoptico che rivelava, come possibile causa della caduta, una malformazione all’ossatura del piede del piccolo. Poi i ritmi diventano più serrati, l’orrore si manifesta in un’escalation di violenze culminanti in un’auto-castrazione clitoridea difficilmente sopportabile per l’occhio dello spettatore.

Da un punto di vista strutturale Antichrist, organizzato attorno a tre capitoli, un prologo e un epilogo di straziante bellezza formale, riprende con puntualità lo schema della fiaba codificato, sul versante della narratologia, dagli studi di Vladimir Propp. L’evento scatenate che sta alla base dell’ultimo film del regista danese, la morte del bambino, coincide con quelle funzioni che lo studioso russo definisce come danneggiamento o mancanza, due varianti morfologicamente equivalenti, che possiedono lo stesso significato, la stessa funzionalità nei confronti dello sviluppo del racconto, quella di far scattare l’azione. Come la fiaba prevede, Antichrist è costruito sulla contrapposizione di mondi antitetici, quello della quotidianità e quello della foresta, separati dallo spazio della frontiera. Due mondi diversi, lontanissimi pur nella loro vicinanza spaziale, ciascuno dominato da proprie leggi, due mondi inconciliabili messi in contatto dallo spostamento dei personaggi da un universo all’altro. I due personaggi del film sono legati ognuno ad un proprio spazio, che li rispecchia e contribuisce a caratterizzarli: lui alla città, lo spazio della razionalità, della scienza, della realtà; lei alla foresta, la zona d’ombra abitata dalle figure dell’inconscio, che si nutre di superstizione, magia, irrazionalità. Varcando la soglia, rappresentata dal ponte posto quasi all’ingresso del bosco, si ritrovano, lui soprattutto, in balia del mondo straordinario, le cui logiche sfuggono agli schemi della ragione. Quello a cui è sottoposto è un percorso trasformativo, un cammino che deve necessariamente passare da un momento di morte-rinascita, per poter poi intraprendere la strada del ritorno cambiato, più consapevole e completo. Alla fine del viaggio lui prende le mosse dall’unica realtà certa rimastagli, il suo corpo, luogo di conflitto irrimediabilmente segnato dalla disperazione, per avviare un percorso di rinascita esistenziale capace di realizzare una sintesi di opposti, di riuscire a portare con sé qualcosa che apparteneva all’Altro sconfitto.

Antichrist trascina lo spettatore in uno scenario disastrato, perché solo sprofondando nell’abisso è poi possibile opporre una volontà di riemersione costruttiva, solo attraverso il turbamento è possibile far emergere un’istanza critica, una profonda comprensione. È un film che si pone come luogo del sintomo, dove si rappresenta quello che si agita nel profondo, il lato ferino, brutale, orgiastico, che mette in luce ciò che sta sotto alla sovrastruttura civile. Quello dell’ultimo Lars von Trier è un cinema del disgusto e della rivelazione epifanica, capace di far emergere una realtà che cova al di sotto delle apparenze, un cinema pestifero “che smette di essere gioco, lo svago di una serata effimera, per diventare una specie di atto utile, e assumere il valore di una vera e propria terapeutica” (2). 

Note:
(1) Antonin Artaud, Stregoneria e cinema, in Goffredo Fofi (a cura di), Antonin Artaud. Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma 2001, p. 63.
(2) Antonin Artaud, A proposito di un testo perduto, in, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2003, p. 119.


TITOLO ORIGINALE: Antichrist; REGIA: Lars von Trier; SCENEGGIATURA: Lars von Trier; FOTOGRAFIA: Anthony Dod Mantle; MONTAGGIO: Anders Refn; PRODUZIONE: Danimarca/Francia/Germania/Italia/Polonia/Svezia; ANNO: 2009; DURATA: 104 min.

 


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