La novità principale di Punch-Drunk Love, rispetto agli altri film di Paul Thomas Anderson, sembra essere la presenza di un unico protagonista, dopo le atmosfere corali e altmaniane di Boogie Nights (1997) e Magnolia (1999). Malgrado la distanza da queste opere, comunque, Robert Altman è presente anche qui e omaggiato attraverso la colonna sonora, in cui troviamo He Needs Me, canzone interpretata da Olive Oyl/Shelley Duvall in Popeye (1980). A questo punto, forse, Ubriaco d'amore potrebbe essere considerato come il punto di transizione che porterà al film successivo, il recente There Will Be Blood (dedicato esplicitamente ad Altman), anch'esso focalizzato su una singola figura, seppur più imponente di Barry Egan (Daniel Plainview, oil-man la cui vicenda è ambientata nei primi decenni del ventesimo secolo). L'incipit di Punch-Drunk Love è piuttosto brusco: il protagonista è gettato all'angolo di una ripresa grandangolare (si trova spesso in un angolo o a margine dell'inquadratura), che gioca tutta su toni lividi e bluastri. Lui è al telefono, impegnato con l'addetto del call center di un'azienda alimentare (“Healthy Choice”), ma in sottofondo si percepiscono strane interferenze. Saranno proprio questi rumori a farlo alzare per uscire fuori dal capannone in cui si trova. È ancora l'alba, un'auto rotola su se stessa, mentre un furgoncino guadagna brevemente l'inquadratura per deporre un piano (un harmonium, come si preciserà in seguito) proprio nel bel mezzo della strada. L'uomo è perplesso, ma non propriamente sconvolto. Quella dell'harmonium è la prima apparizione fatale della lunga giornata di Barry: il piano irrompe in quel deserto fatto di capannoni e cemento poco prima dell'incontro con Lena Leonard, quasi cancellata dalla luce del sole appena sorto. Questa apertura assolutamente surreale (surrealista?) definisce bene il tono del film, oggetto anomalo di per sé e non solo all'interno della filmografia del regista. Tale surrealtà è inoltre provocata dal carattere insolito degli eventi che Barry si trova ad affrontare (e in cui è rilevabile un vago retrogusto coeniano), nonché da quei siparietti fluo che fanno da punteggiatura dislocata del film. Le scelte cromatiche sono enormemente significative: il blu elettrico dell'abito di Barry, i colori di Lena/Emily Watson (il rosso e il viola dell'inizio, che diventeranno il bianco e azzurro pacificatori delle Hawaii). Talvolta, inoltre, il surreale diviene decisamente irreale, a causa delle luci bianche, aliene e talvolta accecanti, che tagliano gli ambienti (l'ufficio di Barry, il supermercato). Un effetto dovuto anche alla colonna sonora a tratti rumorista, percussiva, ritmica. L'unica luce dolce e “reale” sembra quella della breve sosta hawaiana con Lena: ma, anche lì, è sempre la sensazione di fittizio a dominare (“Really, it looks like Hawaii”, commenta Barry). Il penultimo film di Paul Thomas Anderson conquistò il premio per la regia a Cannes: si tratta di una regia dinamica e quasi barocca, la cui complessità visuale si oppone alla semplicità sorprendente (e un po' “suonata”) della storia. La macchina da presa spesso si ritrae o procede insieme a Barry, seguendo i suoi passi esitanti. Esitazione consustanziale alla sua persona, dato che la risposta martellante a qualsiasi domanda gli venga posta è “I don't know”, “I don't know why”. Ma, dopo la breve sosta alle Hawaii, inizia per Barry una sorta di ricerca di autenticità fatta di rivelazioni a Lena, prese di coscienza e coraggio. Quasi tutto corre sul filo delle telefonate con cui Barry riempie la sua vita: spersonalizzate, intricate nei centralini, nei call center aziendali o erotici. Sarà proprio il tentativo di interrompere solitudine e stress con una telefonata “hard” che segnerà il suo destino e darà una svolta decisa allla sua vita monotona. Una pubblicità che annuncia “Are you ready for an INTIMATE AFFAIR? Find love! Talk live!” lo colpisce mentre ritaglia codici a barre per vincere punti fedeltà di una compagnia aerea. Prima di questa telefonata (pseudo-)erotica, si barrica in casa, chiude le tende, preoccupato di non lasciar traccia, di restare sconosciuto, un “Jack” qualunque, come chiede di essere chiamato dalla ragazza. Anche il film è un'irruzione anonima: i titoli compaiono, infatti, esclusivamente alla fine, sottolineando l'aspetto di oggetto non identificato dell'opera. Solo l'abito blu elettrico permette a Barry di risaltare sullo sfondo, soprattutto grazie ai commenti acidi della tribù di sorelle (ben sette) che lo circonda. Soffocato da famiglia e lavoro (una fabbrica di sturalavandini), gli unici sfoghi sono degli accessi di rabbia violenti e incontrollabili contro gli oggetti (le finestre a casa di una delle sorelle, la toilette del ristorante in cui porta Lena al primo appuntamento). Adam Sandler ha tutte le apparenze di un personaggio sellersiano, specie nella fisicità rigida e trattenuta che ricorda il Chance di Being There (1979). I suoi sguardi timidi e inesorabilmente bassi, uniti a una goffaggine un po' sorniona, conquistano Lena, la quale incarna un istante di verità nella sua vita fatta di telefono, supermercato e lavoro. Una storia “punch-drunk”, dunque, a tratti inconsulta, ma sorprendentemente lineare. Una colorata epifania. TITOLO ORIGINALE: Punch-Drunk Love; REGIA: Paul Thomas Anderson; SCENEGGIATURA: Paul Thomas Anderson; FOTOGRAFIA: Robert Elswit; MONTAGGIO: Leslie Jones; MUSICA: Jon Brion; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2002; DURATA: 97 min.
|