Chloe PDF 
Marianna Marino   

Rifare o sterilizzare? L’ultima opera di Atom Egoyan esita tra queste due forme di intervento medicale nei confronti di Nathalie, film di Anne Fontaine del 2003. Chloe, di fatto, non è propriamente un remake, sebbene i punti cardine della vicenda, molte scene e alcune battute siano riprese in modo più che fedele (se non pedissequo). Il personaggio della moglie si chiama in entrambi i casi Catherine, a dipingere una donna in lotta con la purezza del suo nome, martire della vita coniugale. Il valore del nome femminile, che in entrambi i casi funge da titolo, assume invece un ruolo radicalmente diverso, poiché Nathalie (il nome con cui Catherine battezza la donna che potrebbe piacere a suo marito) nell’ambito del locale in cui lavora si fa chiamare Marlène (che rappresenta probabilmente un altro pseudonimo). Chloe, da parte sua, non ha che un solo nome, scandito dalle sue apparizioni sul display del cellulare. Il rifacimento scompone e ricompone il racconto di partenza in funzione della nuova tonalità che gli si vuole attribuire. Un esempio significativo è costituito da una scena, la visita e il colloquio tra Catherine – che in entrambi i film fa la ginecologa – e una giovane ballerina che si dichiara timidamente ancora vergine. Nella versione francese si tratta di un episodio di contorno incluso nella seconda metà del film, mentre nella versione canadese è posto significativamente all’inizio, a sottolineare il complesso rapporto di attrazione/repulsione che la donna nutre verso il sesso.

Julianne Moore viene rinchiusa nel ruolo di donna in carriera e brava moglie e padrona di casa (come in Lontano dal paradiso). Questa perfezione si collega alla tematica della pulizia, in base a quella clinicità che sembra aver imposto le regole del remake. Se Catherine/Fanny Ardant è sommessamente lacerata dal tradimento (vero, confessato, e probabilmente seriale), per Catherine/Julianne Moore esso costituisce più che altro una questione di pulizia "morale". Lo stesso principio ha delle ripercussioni sull’adattamento scenico: dagli umidi paesaggi parigini ci si ritrova in una fredda Toronto costellata di neve e di costruzioni ipermoderne. La dimora della famiglia Stewart emerge dalle pagine patinate di una rivista di architettura e le lampade che la illuminano sono rigorosamente pezzi storici del design italico. La casa è squadrata come Catherine, ne sintetizza il carattere e l’inclinazione alla riduzione scientifica di ogni evento. Così l’orgasmo per lei non è altro che una serie di contrazioni e il pensiero del tradimento provoca, quasi prima del dolore, la preoccupazione materna per la salute di David.

Tutto è insomma tremendamente altoborghese: dalla casa, ai vestiti, agli impegni mondani. Nulla si sporca davvero. Tutto è pulito, in ordine. Catherine e Chloe sembrano dunque condividere la medesima fissazione: il film si inaugura infatti con la ragazza in atto di prepararsi a uno dei suoi incontri, mentre la sua voce off spiega il suo talento nel saper toccare, guardare, dire la parola giusta. Il suo perfezionismo si traduce dunque nella sadica strategia che farà precipitare la storia. Nell’opera di Fontaine il gioco è più sottile, articolato, forse più crudele. Il tradimento del marito non è un mistero da svelare, ma un dato di fatto che funge da molla nei confronti della prova elaborata da Catherine. Anche l’aspetto fabulatorio è più complesso: Nathalie, la donna-esca offerta all’uomo, è un’invenzione, un personaggio in cui vengono sdoppiate sia la moglie che la presunta amante. È un essere di fantasia, e nella fantasia è costretto a restare. I difetti maggiori del film di Egoyan sembrano derivare da una cattiva economia narrativa e dal suo voyeurismo poco perturbante. Quanto al primo punto è interessante rilevare le differenze che riguardano i personaggi collaterali: il figlio di Catherine e Bernard non è scontroso come Michael, il quale è in fondo un personaggio quasi inutile, figlio/vittima di due genitori modello che si riduce a un semplice dispositivo atto ad accentuare la crisi coniugale e a motivare un finale attaccaticcio e sbrigativo. Egoyan annulla altresì l’interessante figura della madre di Catherine. Infine, nell’originale non vi sono oggetti magici come il fermaglio per capelli, né esiti tragici: il massacro è solo emotivo, e forse proprio per questo offre alla coppia la possibilità di una catarsi.

Chloe è dunque un thriller erotico/psicologico mal riuscito, leccato, preoccupato di svelare le carte in tavola e di mettere in scena una storia lesbo-estetizzante. Quello del film è insomma un erotismo raffinato, confezionato appositamente per un uomo colto e di classe, come il David del film. In effetti, lo sguardo direttore sembra il suo, imperniato com’è sulle visioni della donna amata intrecciata alla giovane ninfa. Catherine non guarda, lascia che altri sguardi dirigano il suo, il che risulta ancora più evidente nella passione e nel talento fabulatorio di Chloe, che indugia su ogni dettaglio (più operatrice di hotline che escort). I giochi potrebbero tuttavia essere ben più complicati: che si tratti del sogno di un sogno, in cui è la mente di Catherine a sviluppare immagini al contempo affascinanti e ossessive? Nella scena conclusiva, infatti, e fino ai titoli di coda, la mdp vuole farci inoltrare nella selva di piante della serra descritta da Chloe. Metafora spicciola della contorta mente umana? L’effetto ottenuto è in realtà un cortocircuito con l’incipit di Exotica (1994), in cui la finta vegetazione del locale scorre su alcune note di pianoforte. Forse allora il fallimento di Egoyan potrebbe derivare dal peso costituito dal suo film precedente, che pare aver motivato il cambiamento del ruolo di Chloe/Nathalie e l’eliminazione del locale di spogliarelliste/intrattenitrici al centro del film francese. Per non rischiare di ripetersi, il regista prende altre strade, in cui purtroppo si perde. 

TITOLO ORIGINALE: Chloe; REGIA: Atom Egoyan; SCENEGGIATURA: Erin Cressida Wilson; FOTOGRAFIA: Paul Sarossy; MONTAGGIO: Susan Shipton; MUSICA: Mychael Danna; PRODUZIONE: Canada; ANNO: 2009; DURATA: 96 min.

 


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