La realtà è sogno: il cinema di Aleksandr Sokurov PDF 
Amon Rapp   

La prima impressione che si ha nell’affrontare il cinema di Aleksandr Sokurov è che esso non si muova lungo le consuete logiche del reale e della materia ordinaria, ma si attorcigli piuttosto in una spirale infinita in cui i cerchi della percezione, della memoria, del sogno e della storia si ritrovano intrecciati in un tessuto inestricabile. Spazio e tempo perdono la loro capacità di ergersi a punti di riferimento stabili per la comprensione del mondo. Alterate, dilatate, distorte, le coordinate spazio-temporali, da guida certa per la scoperta di un nuovo territorio, si tramutano in un inaffidabile compagno di viaggio, che confonde, turba, disorienta. Le immagini di Sokurov, lentamente, ci traghettano in un universo altro, simile al nostro, ma interrotto da improvvise lacerazioni, da cui l’inconsueto e l’imprevisto emergono prepotentemente. L’effetto è quanto di più straniante si possa trovare nel cinema contemporaneo: lunghe attese, rallentamenti, pieghe, espansioni e mutazioni si succedono attraverso l’uso di dispositivi che agiscono direttamente sull’immagine, obiettivi deformanti, filtri cromatici, lenti anamorfiche che trasformano la realtà rappresentata in un panorama onirico. Di colpo i confini tra sonno e veglia, percezione e ricordo, presente e passato, reale ed immaginario evaporano per lasciare posto a un realismo magico, a un mondo affacciato sulla soglia del sogno e del fantastico.

I suoi primi film narrativi, Salva e custodisci, una rivisitazione del romanzo Madame Bovary di Flaubert, I giorni dell’eclisse, il viaggio di un dottore in una sperduta città dell’Asia centrale, tra visioni allucinatorie e oscure presenze aliene, e Il secondo cerchio, una laica riflessione sulla morte messa in scena a partire dalla storia di un figlio alle prese con la sepoltura del proprio padre, sono riflessioni sulla temporalità della vita e della sua rappresentazione, opere di altissimo rigore formale. Gli stati narrativi sono quasi congelati in lunghissimi piani sequenza. L’immagine, di forte matrice espressionista, si fa portatrice di significati ulteriori, veicolati unicamente dai formanti plastici. Gli uomini, gli oggetti e i paesaggi si assemblano in un affresco perennemente sospeso tra la fiaba e l’incubo. Le opere successive sembrano invece prestare grande attenzione all’interiorità dell’uomo, alle sue passioni e ai suoi desideri. Il dittico Madre e figlio e Padre e figlio sono giocati sull’amore profondo, eccessivo, straripante che a volte unisce gli esseri umani legati da un vincolo di sangue. Il primo dei due film mette in scena una pietà al contrario, nella quale tocca al figlio lo straziante compito di accompagnare la madre verso il termine naturale del suo viaggio. Ogni inquadratura è pervasa da una sofferenza indicibile, da un grido lacerante a cui sembra partecipare la natura intera. In un paesaggio che avvolge i due protagonisti in un abbraccio amniotico, si consuma l’inevitabile infrangersi di un’unità, il destino di un abbandono irreversibile, riflesso della separazione originaria che divide per sempre la madre dal proprio figlio al momento della nascita. Lo stile è ieratico, il clima allucinatorio, il tempo espanso e a tratti immobilizzato, quasi a indicare il desiderio di un rimando, di un differimento di una fine che si affaccia inesorabile, e che, nell’attesa, disgrega gli animi e li appende a una vana e irrealizzabile speranza.

Padre e figlio, invece, realizza un movimento contrario, esaltando l’elemento apollineo dell’arte a discapito di quello dionisiaco, così profondamente presente in Madre e figlio. Due uomini, padre e figlio, e nello stesso tempo amici, fratelli, amanti, sono uniti da un legame che scavalca qualsiasi possibile categorizzazione linguistica che ne possa dare il sociale: un sentimento pervaso da una dolcezza assoluta, che nelle preoccupazioni, nei gesti e nelle parole rivela un’unità di fondo che va al di là delle individualità e delle differenze. Sokurov abbandona la crepuscolarità del suo film precedente per dare vita ad un ritmo più leggero, sognante e luminoso. La luce che si posa come una coperta sui visi, le figure, i tetti e le case rischiara il mondo intero e contemporaneamente lo protegge, dalla morte forse, che per un istante sembra essersi ritirata nella sua dimora. Il canto lirico di questi due film si lega per motivi e stilemi al progetto che Sokurov è riuscito a portare avanti, parallelamente alla sua produzione narrativa e documentaristica, fin dal 1987: la realizzazione di una serie di elegie che si presentano come canto di lode, teso a ricordare qualcosa o qualcuno svanito nei meandri del tempo e della storia. Glorificando la morte, ripresentando in forma poetica una scomparsa irrimediabile, l’elegia di Sokurov materializza in un segno l’assenza, presentifica in un succedersi di immagini il ricordo di quanto di importante è andato perduto. Realtà e poesia si fondono per dare vita a un lamento funebre che mescola al suo interno materiale di repertorio e di finzione, personalità storiche e personaggi inventati, accostamenti formali e linee narrative. Concrete o astratte, attente agli uomini comuni o alle grandi figure della storia, le elegie di Sokurov sono un inno elevato all’umanità a partire dal legame con la propria terra natia.

E del resto, la Russia, la storia e il viaggio sono i temi che si intrecciano ne l’Arca russa e in Aleksandra. Se del primo film molto si è parlato, per l’arditezza di un’impresa che aspira a girare in un unico piano sequenza un viaggio nel tempo all’interno dell’Ermitage di San Pietroburgo, Aleksandra è forse il capolavoro del cineasta russo. Una donna anziana, in cammino in un territorio disastrato dalla guerra, è alla ricerca del nipote, soldato al fronte del conflitto ceceno. La permanenza nel campo base del giovane, i rapporti coi militari russi e i civili ceceni e l’impatto con una lotta armata, il cui senso non potrà non rimanerle oscuro, la segneranno profondamente. Di estatica eleganza, ricolmo di un’inconsueta delicatezza, il film di Sokurov non parla di guerra, ma di mondi opposti che si incontrano, di vite agli antipodi, e di un’umanità condivisa. Negli occhi di Aleksandra si intravede il riflesso di uno scontro che non viene mai mostrato, e nonostante tutto si rivela, nei volti e negli sguardi degli attori in gioco, di struggente intensità. Ma è nel ritratto del potere che prende vita il progetto forse più ambizioso di Sokurov, la tetralogia Moloch, Taurus, Il sole e Faust. Quattro personaggi si compongono in un quadro multiprospettico sull’ineffabilità del potere, sulla sua inconsistenza fantasmagorica, che appare e scompare a prescindere dalle volontà di chi di volta in volta si ritrova ad incarnarla. Moloch guarda il potere attraverso l’occhio del Führer, racchiuso all’interno della sua residenza estiva, una fortezza arroccata su una sperduta montagna incantata. In questo luogo privato, separato dal mondo reale e perennemente avvolto da una nebbia che ne occulta gli accadimenti, Hitler paradossalmente rivela la natura immaginaria del potere e il suo carattere pubblico, che vive e si alimenta nascondendo il debole sostrato che funge da supporto alla sua evanescenza. Ancora al vertice della sua grandezza, seppur sull’orlo del precipizio, il dittatore tedesco si mostra nella sua effettività materica, con l’effetto di incrinare la parvenza di onnipotenza che circola al di fuori del castello, e dalle cui crepe emergono manie personali, deliri della mente e debolezze corporali. Il potere vive di rappresentazione, una rappresentazione ad uso e consumo del pubblico, ma che finisce per ammaliare anche chi del potere si fa portatore, tanto da rimanere invischiato in un gioco di simulacri che lo disancora completamente dal reale. La hýbris dell’uomo ha la sua origine in un errore di valutazione, in un’illusione di forza, che si convince di dominare il corso degli eventi, senza rendersi conto di essere da sempre soggiogata da un cieco destino.

In Taurus, un vecchio e malato Lenin si ritrova completamente svuotato del potere di cui un tempo era padrone, semplice involucro-fantasma di quel che era in passato. Virato in un verde ectoplasmico, Taurus mette in scena un teatro d’ombre, dove il ricordo di un’antica potenza rivive in una vuota recitazione, il cui unico spettatore appassionato rimasto pare essere Lenin stesso. Potere della memoria e dell’immaginazione che fa rivivere qualcosa di cui non rimane più traccia. E volatilità del potere che con la morte rivela la sua natura mondana, transeunte e artificiale. Il sole, infine, chiude i grandi ritratti storici dedicati al potere, mostrando l’imperatore giapponese Hirohito nell’attimo stesso della sua caduta, nel momento di passaggio dal suo stato divino a quello puramente umano. Schiacciato dal peso di una sconfitta che sembra non capire, l’imperatore si trasforma sotto gli occhi di chi lo osserva da divinità solare, inaccessibile e trascendente, a banale caricatura, copia di un’immagine, sosia di un’icona del più popolare degli spettacoli. In questo film, più che in tutti i precedenti, il potere si mostra sotto la sua natura di segno, che solo a partire dal suo riconoscimento esterno, dall’occhio di chi lo interpreta, può far scaturire la sua forza.

È con Faust, tuttavia, che la riflessione sul potere si fa cosmica e generale, divenendo emblema della parabola stessa di tutto l’Occidente. In un mondo marcescente, innervato di una scienza alla ricerca del totale dominio sulla natura, Faust, medico divorato da un materialismo che non sembra offrirgli speranza alcuna, non cessa di chiedersi quale sia il mistero che avvolge nelle sue spire l’anima e la morte. Un Faust errante, cronicamente inquieto, richiamato dalla seduzione del denaro e degli istinti animali, trova in Mefistofele un compagno di viaggio, quasi un servo fedele, mentre attorno a lui nascono creature mostruose, miti alchemici, simboli della volontà dell’uomo di penetrare gli enigmi del cosmo e di manipolare la vita nella sua essenza. Ma è nella natura di Faust l’impulso irrefrenabile a spingersi sempre oltre, a ritrovarsi perennemente inappagato dalle conoscenze raggiunte, dai territori già esplorati: il suo vagare verso terre lontane della mente e dello spazio riflette la volontà inflessibile dell’uomo di conoscenza, alla ricerca di un potere assoluto sulle cose che costantemente gli sfugge dalle mani, condannandolo all’eterna insoddisfazione, e costringendolo nello stesso tempo a fare un passo avanti. Ancora.

 


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