Il lupo mannaro, il taglialegna, la nonna, cappuccetto rosso e il fantasma del sangue che resta solamente nella traduzione dei distributori italiani. Catherine Hardwicke, dopo l’enorme successo del primo episodio di Twilight (2008) e l’egida protettivo-produttiva di Leonardo DiCaprio, con Cappuccetto Rosso Sangue ha provato nuovamente ad accalappiarsi il pubblico di adolescenti attratti da storie di vampiri e amori travolgenti rivisitando la celebre fiaba dei fratelli Grimm. In questo caso re-interpretare coincide con il tradire e il rivoluzionare la storia della bambina alle prese con il lupo, prosciugando la narrazione e utilizzando come unica fonte di attrazione i volti e i corpi dei giovani attori belli e glamour, come è già stato con le gesta di Bella, Jacob e Edward, neo-idoli delle ragazzine.
In un imprecisato contesto pesudo-medievale, Valerie (Amanda Seyfried), la ragazza più graziosa del villaggio, è innamorata del bel tenebroso (ma squattrinato) taglialegna Peter (Shiloh Fernandez). La giovane è già promessa in sposa all’affascinante e benestante fabbro Henry (Max Irons). Sullo sfondo della vicenda ci sono l’angoscia, il terrore e la paura nei confronti del lupo mannaro che da generazioni insidia la tranquillità del villaggio, impossessandosi del corpo di alcuni abitanti. Il contrasto tra la civiltà della cittadina, simbolo della cultura e della razionalità dell’uomo, e lo status misterioso e barbarico della foresta, allegoria della natura e dell’istinto primordiale, è probabilmente uno dei rari elementi della fiaba ad essere conservato. Ma le criticità non riguardano soltanto la fedeltà, piuttosto il ripiegamento della sceneggiatura e della regia verso un unico obiettivo: strizzare l’occhio al proprio target. Così, abbondano i primi piani dei giovani attori, colti in espressioni da posa fotografica, ottime per una rivista di moda ma fuori contesto per una pellicola. La recitazione dei tre interpreti, infatti, è ricca di forma (fisica) e di poca sostanza: la gamma espressiva di Amanda Seyfried, intabarrata in un cappotto con cappuccio rosso dotato di strascico fashion, passa dagli occhi spalancati per la paura agli occhioni blu (sempre spalancati) velati dalle lacrime per il proprio mal d’amore. Max Irons del padre Jeremy, invece, porta solo il cognome, e dalla fissità dei suoi primi piani si intuisce chiaramente la carriera pregressa di fotomodello per Burberry. Gli interpreti navigati, Gary Oldman nel ruolo di Padre Solomon, l’ammazza-licantropi, e Julie Christie nei panni della nonna, infine, non possono che muoversi un po’ spaesati tra le immagini patinate della regista, che per costruire la tensione ricorre unicamente ad un vorticoso traballio della macchina da presa durante le sequenze concitate della caccia al lupo.
Se il sangue del titolo italiano è uno spettro unicamente immaginato dai traduttori, i codici del genere horror, ai quali il film rimanda volutamente nel trailer originale, latitano completamente e colpevolmente. Si oscilla invece tra il fantasy e il melodramma sentimental/adolescenziale che punta dritto al target predestinato, sbagliando però traiettoria e mancando il bersaglio.
TITOLO ORIGINALE: Red Riding Hood; REGIA: Catherine Hardwicke; SCENEGGIATURA: David Johnson; FOTOGRAFIA: Mandy Walker; MONTAGGIO: Nancy Richardson, Julia Wong; MUSICA: Alex Heffes, Brian Reitzell; PRODUZIONE: Canada; ANNO: 2011; DURATA: 100 min.
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