Pordenone 2010: Le Giornate del Cinema Muto PDF 
Amon Rapp   

Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, unica manifestazione italiana, e tra le poche al mondo, esclusivamente dedicata al cinema delle origini, raggiungono la ventinovesima edizione non senza manifestare alcuni segni di stanchezza. È infatti in atto una deriva, che si protrae ormai già da alcuni anni, che ha portato la direzione a cristallizzarsi su criteri di scelta dei film discutibili, che privilegiano la ricerca di opere sì dotate di assoluto valore archivistico, ma che sempre più sembrano mancare di una spiccata qualità intrinseca. A ben guardare la volontà di offrire una programmazione che garantisca la più ampia offerta di pellicole rare o solo recentemente riscoperte, e dunque mai proiettate nelle edizioni precedenti del festival, è pienamente legittima per una manifestazione che si rivolge prevalentemente ad un pubblico di specialisti. Tuttavia, col passare degli anni, si ha l’impressione che sia sempre più difficile riuscire a conciliare questa esigenza con la necessità di arrivare ad una selezione che guardi anche al valore artistico delle opere in programma.

Perchè allora non riproporre i grandi e i piccoli classici del muto in modo da avvicinare le nuove generazioni ed invogliare anche un più largo pubblico a lasciarsi sedurre dalle immagini del cinema muto? E se di un classico, per usare le parole di Italo Calvino, ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima, perchè non dare l’opportunità anche ai veterani delle Giornate di ri-vedere ancora una volta sul grande schermo questi film memorabili? A queste domande sembra aver risposto, a partire dall’anno scorso, la sezione “Il canone rivisitato”, a cui è stato affidato il compito di riesaminare e riscoprire i classici del silent cinema. Ma lo sforzo operato in questa direzione non si è dimostrato affatto sufficiente: il numero di titoli presenti all’interno di questa retrospettiva è ancora troppo esiguo e la scelta delle pellicole pare afflitta da criteri non troppo distanti da quelli utilizzati per le altre parti del festival. Sembra pertanto che manchi innanzitutto la voglia di rinnovarsi, che l’immutata struttura direttiva nel corso degli anni abbia preferito adagiarsi su una formula collaudata, senza sentire l’esigenza di rimettersi in discussione. Da qui il senso di una sostanziale astenia e di una languida ripetizione, riscontrabile anche nella scelta degli accompagnamenti musicali che, seppur condotti dai massimi musicisti del settore, non sono usciti dalla classicità dei repertori, e mai hanno osato spingersi verso riletture contemporanee, magari azzardate, ma foriere di possibili nuovi significati e nuove linee interpretative.

Venendo ai contenuti di quest’anno, sono state tre le sezioni principali in programma. La prima, incentrata su tre cineasti della casa di produzione Shochiku, Hiroshi Shimizu, Yasujiro Shimazu e Kiyohiko Ushihara, porta per la terza volta il cinema muto giapponese alle Giornate. Difficile, dunque, non fare paragoni con le due retrospettive presentate nel 2001 e nel 2005, anch’esse dedicate ai grandi protagonisti del paese del Sol Levante: il programma sulla carta suscitava grande interesse, anche per via dell’unicità della selezione di quest’anno, che per la prima volta portava sullo schermo di Pordenone film dei primi anni Trenta, periodo in cui in quasi tutto il mondo occidentale il passaggio al sonoro era già avvenuto, mentre in Giappone perdurava ancora l’arte del muto. Nel voler trarre un bilancio complessivo, le proiezioni dedicate al cinema giapponese presentate questo ottobre si sono attestate su un livello non troppo elevato, facendo emergere un lieve senso di rimpianto verso le due grandi selezioni precedenti: nondimeno si è potuto assistere ad alcune rappresentazioni di notevole interesse. Primi fra tutti, per qualità stilistica e narrativa, i lavori di Hiroshi Shimizu: coetaneo e collega, negli studi della Shochiku, di Yasujiro Ozu, Shimizu, senza rinunciare alle esigenze commerciali di produzione, ha saputo rivolgere riflessioni non banali alla condizione del suo paese, alle prese con le grandi contraddizioni tipiche di una nazione che ha scelto la strada di una rapida modernizzazione. I conflitti tra individuo e società, tra tradizione e innovazione e tra oriente e occidente sono da lui narrati con acuta lucidità, anche nelle opere rivolte ad un pubblico più vasto.

Tra i suoi film migliori, Minato no nihon musume (Ragazze giapponesi al porto), palpitante storia di un’amicizia infranta a causa di un amore conteso, è pervaso di una struggente nostalgia che dal piano individuale si traspone a quello sociale. Impregnato di elementi riconducibili all’Occidente, chiese cristiane, corpi a sangue misto, ambienti europei, il film non rinuncia a rappresentare una sensibilità profondamente orientale, trasmessa soprattutto attraverso la composizione dei quadri, manifestando un’etica e una poetica di proprietà esclusiva del popolo giapponese. Stilisticamente rarefatto al limite della stilizzazione, è permeato di immagini di rara bellezza, prevalentemente girate in esterni, che non possono non far pensare allo scorrere inesorabile del tempo, e al mutare di ciò che si credeva eterno. In Tokyo no eiyu (Un eroe di Tokyo), invece, lo sguardo di Shimizu non risparmia da una feroce critica la società giapponese, infettata da un endemico pregiudizio sociale, al cui altare possono venire sacrificati anche i sentimenti più intimi, come quelli di riconoscenza e pietà filiale. Una madre rinuncia alla sua onorabilità per mantenere la propria famiglia, intraprendendo il lavoro di entraîneuse: verrà progressivamente abbandonata da tutti, e nell’unico figlio deciso a supportarla incondizionatamente non riuscirà a trovare la risposta alle sue più grandi aspettative, minate anch’esse dal dogma della rispettabilità sociale. Tokyo no eiyu è un’opera intrisa di dolore e di disperazione, stati d’animo che, come spesso accade nel cinema classico del Sol Levante, non si manifestano tanto in un’eccessiva esternizzazione delle emozioni, quanto in una contenuta sofferenza, rivelata da sguardi fucaci e da frasi interrotte.

È di Yasujiro Shimazu, altro regista di punta della produzione cinematografica della Shochiku degli anni  Trenta, forse l’opera migliore presentata in questo programma: Ai yo jinrui to tomo ni are (L’amore sia con gli uomini) guarda al Re Lear nel raccontare la tragica vicenda di un padre abbandonato e tradito progressivamente dai quattro figli. Nonostante le quattro ore di durata, il film riesce a mantenere un’encomiabile e ininterrotta tensione narrativa. Da antologia la scena del ricongiungimento tra il padre e il figlio ribelle, unico, tra i quattro fratelli, ad essere ancora dotato di sentimenti umani e a non aver ceduto all’avidità e all’ambizione del denaro: il regista, attraverso una messa in scena capace di dilatare a dismisura i tempi diegetici, riesce a creare un episodio di tale impatto emotivo che da solo vale la visione dell’intero film. Al contrario, non convingono affatto i due lungometraggi di Kiyohiko Ushihara: Shingun (In marcia), pur nascendo da ottime premesse che si rifanno all’immenso The Big Parade di King Vidor, sfocia purtroppo in un troppo facile patriottismo. Il film si tiene finchè si preoccupa di illustrare gli entusiasmi e i timori dei giovani giapponesi pronti a combattere per il proprio paese, ma allo scoppiare della guerra decade in una rappresentazione anonima e asettica del conflitto: l’impiego eccessivo e prolungato di immagini di repertorio genera un debrayage emotivo nello spettatore, che, ritrovatosi improvvisamente proiettato al di qua dello schermo, non è più in grado di partecipare alle vicende che coinvolgono i personaggi. D’altro canto, Wakamono yo naze naku ka (Perche’ piangete ragazzi?), storia di un padre che, sposando in seconde nozze una donna troppo “moderna”, fa emergere conflitti insanabili all’interno del nucleo familiare, si ferma in superficie, peccando di eccessivo schematismo nell’affrontare le dinamiche sentimentali dei protagonisti.

La retrospettiva sul cinema sovietico presenta a sua volta i lavori di tre cineasti russi, Abram Room, Mikhail Kalatozov e Lev Push, nelle loro non facili avventure produttive. Bersagli di attacchi ideologici e di mosse censorie, i tre registi hanno tuttavia saputo portare avanti un discorso autoriale di tutto rispetto. E di assoluto interesse risulta essere Lursmani cheqmashi (Il chiodo nella scarpa) di Mikhail Kalatozov. Surreale, grottesco, a tratti tragico, il film mette in scena la disperata ricerca di aiuto di un giovane soldato russo, ultima speranza per i suoi compagni asseraggliati all’interno di un treno blindato: fallirà a causa di un chiodo nella scarpa che gli impedirà di raggiungere la destinazione agognata, e per questo sarà sottoposto al giudizio del popolo. Visionario nelle inquadrature e frenetico nel montaggio, il film disancora lo spazio e il tempo ordinari tramutando gli ambienti in spazi simbolici, in luoghi della mente ai confini del reale. La parte finale, riportando le colpe del soldato ad una dimensione di responsabilità collettiva, non è priva di feroce ironia ed anzi è capace di illuminare di nuova luce il corso precedente degli eventi. Jim Shuante (Il sale della Svanezia), anch’esso del georgiano Kalatozov, è invece un film di natura documentaristica che ha il compito di mostrare le difficili condizioni di vita del popolo della Svanezia, afflitto dalla penuria di sale e costretto all’isolamento per la mancanza di strade. Il regista più che ricercare la corrispondenza con la realtà si concentra sulle immagini, creando quadri di altissimo valore artistico, giocati sulle prospettive e sulle angolazioni, sui contrasti e sui chiaroscuri, pervenendo a una narrazione meramente visiva, carica di pathos e non priva di innovazioni formali. Sorprende, infine, anche Tretya Meshchanskaya (Terza Meshchanskaya), di Abram Room, triangolo amoroso raccontato con grande leggerezza e mordace senso dell’umorismo. Si respira aria di libertà per tutto il corso del film, una libertà che non tiene conto dei dettami della morale comune, ma che, come in un Jules e Jim ante litteram, preferisce proclamare il diritto all’amore di manifestarsi in tutte le sue innumerevoli forme.

Passando a “Il canone rivisitato”, la retrospettiva per il secondo anno consecutivo ripropone e riscopre alcuni dei classici del muto. Seppur nell’esiguità delle opere presentate (solamente sei titoli), è in questa sezione che si è potuto ammirare uno dei migliori film presentati all’interno del festival di quest’anno. Mutter Krausens fahrt ins glück (Il viaggio di Mamma Krause verso la felicità) di Piel Jutzi ritrae magistralmente un’umanità abbruttita, in eterna lotta per il pane quotidiano, traboccante di meschinità, prevaricazioni e tradimenti; ricorda da lontano i romanzi di Zola, la povertà materiale e morale dei suoi protagonisti, aggrappatti a fragili speranze ma privi di futuro, perchè la lotta per la vita ha cancellato dal loro orizzonte qualsiasi possibilità di riscatto. Jutzi non esita a chiudere i suoi personaggi in una cornice claustrofobica, un piccolo appartamento nei quartieri proletari di Berlino, emblema di un mondo che imprigiona i suoi abitanti inchiodandoli alla loro condizione sociale: qui, presa all’interno di un’eterna guerra tra poveri, la famiglia Krause sembra destinata fin dall’inizio a precipitare nel baratro della disillusione. E così la sola felicità che mamma Krause può agognare di raggiungere al termine del suo viaggio, dopo aver visto progressivamente crollare tutto ciò che aveva di più caro, non può essere che quella della morte, ultimo ed estremo rimedio ai mali dell’esistenza. Le miracle des Lups (Il miracolo dei lupi) di Raymond Bernard, epopea storica di grande spettacolarità scenografica, comincia invece arrancando sotto il peso di un’eccessiva verbosità, affidata ad un uso smodato delle didascalie, per poi risollevarsi nella seconda parte attraverso immagini di raffinata e non comune eleganza. Raccontando il decennale conflitto tra Luigi XI e Carlo il Temerario per il dominio della Francia, il regista riesce a concentrare in singole inquadrature l’intero immaginario cavalleresco dell’epoca, aprendo al magico e al meraviglioso, e ricordando a tratti per capacità d’astrazione il rigore dei Nibelunghi di Fritz Lang.

Ma il giudizio complessivo sul canone rivisitato non può essere esente da critiche: le restanti pellicole proiettate all’interno del programma, da Drifters di John Grierson a Moana di Robert Flaherty (attenti alla ricognizione di mondi lontani come il Mare del Nord e le isole Samoa), nonché da Hævnens nat (Notte di vendetta) di Benjamin Christensen a Il fuoco di Giovanni Pastrone (incentrati su passioni capaci di consumare intere esistenze), non riescono a risplendere sufficientemente in modo da giustificare la loro presenza all’interno di uno dei “canoni” del cinema muto. Fa eccezione il solo film italiano, che, nonostante la recitazione sopra le righe di Pina Menichelli e Febo Mari, si distingue per la forza delle passioni messe in gioco, in grado sia di innalzare l’uomo verso un’estasi suprema che di precipitarlo in un abisso di follia. Ora, se le retrospettive composte dai brevi film de “I comici francesi” e del “Cinema delle origini” (The Corrick Collection) non hanno brillato per sorprese, tra gli eventi speciali e i “fuori sezione” si sono potuti ammirare grandi capolavori del muto, nonché incontri inaspettati. E così Bronenosets Potyomkin (La corazzata Potemkin) di Sergej M. Ėjzenštejn ha ricordato ancora una volta al pubblico presente in sala la sua assoluta modernità, il suo dinamismo e la sua eversiva carica formale, mentre un altro grande maestro del cinema russo sorprendeva con la sua inattesa vena satirica. Shakhmatnaya goryachka (La febbre degli scacchi) di Vladimir Pudovkin stupisce per lo spirito ironico di cui è ricolmo: in un susseguirsi di accostamenti surreali e grotteschi il cineasta sovietico imprigiona il suo protagonista in un delirante vortice maniacale, al cui centro ritroviamo la scacchiera. Magistrale nell’uso dei tempi comici, è una vera rivelazione per il ritmo che riesce a infondere alla narrazione.

Per finire, la pellicola di chiusura, Wings (Ali) di William Wellman, è il film più emozionante dell’intera selezione delle Giornate del 2010. Accompagnata da una magnifica partitura, scritta da Carl Davis ed eseguita dall’Orchestra Mittleuropea, l’opera di Wellman è un grande affresco delle illusioni della gioventù americana, appostata sull’orlo del precipizio della Grande Guerra: le speranze, gli amori e i sogni saranno destinati ad infrangersi all’apertura del conflitto con la Germania. Sullo sfondo di questo scenario, al tramonto di un’era, due giovani aviatori crederanno di poter uscire indenni dallo scontro, supportati dal profondo sentimento di amicizia che li lega, ultimo fondamento in un mondo ormai privo di qualsivoglia certezza. Ma la tragedia li attenderà al varco. Opera non certo perfetta nella sua costruzione, puntellata da alcune ingenuità del racconto, trova nonostante tutto il suo equilibrio, riuscendo a penetrare nel cuore del pubblico con una forza dirompente. I mirabolanti scontri aerei e le magnifiche riprese in volo arricchiscono la sostanza drammatica dell’opera, donando spettacolarità alla visione, e conducendo per mano lo spettatore verso il lancinante epilogo.

In conclusione, non possiamo non segnalare l’affascinante spettacolo d’addio di Laura Minici Zotti, che con la sua lanterna magica ha voluto omaggiare Pordenone di un’ultima occasione per poter ammirare il suggestivo spettacolo del precinema. Negli splendidi vetri dipinti a mano, animati dall’abile mano della lanternista, il pubblico ha potuto rivivere, ancora per una volta, la magia di un’epoca scomparsa, di un mondo fantasmatico di cui ci rimangono solamente degli evanescenti e fugaci raggi di luce.

 


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