Il mio amico Eric PDF 
Nando Dessena   

Looking for Eric. Un’apologia del passaggio. Passare la palla. Passarsi una canna. Il gioco di squadra che alla fine della fiera paga più di un goal. Ovvero, ma è ovvio Ken Loach gioca in casa, la velleità dell’individualismo. La classe operaia andrà in paradiso? Di sicuro va alla partita. Questa volta è il calcio il catalizzatore sociale per un film che abbandona per un attimo il rigore (il doppio senso è d’obbligo!) e sconfina nella commedia. Una vita quasi distrutta quella di Eric Bishop (Steve Evets), un vecchio grande amore vivo solo nel ricordo di un paio di scarpette scamosciate blu e una serie di errori, forse irreparabili, inanellati in trent’anni di continui fallimenti. Ma “la vita è meravigliosa” ci ricorda Frank Capra, non dimentichiamolo, e se è vero che Ken Loach non è avvezzo alla cinefilia quanto Woody Allen, allora ci si dimentichi del Bogart di Provaci ancora Sam e si volga lo sguardo alla mitologia calcistica britannica.

Eric Cantona nel ruolo di lui-même in veste più di grillo parlante che di angelo custode riesce a fondere, nella divertita scrittura dello sceneggiatore Paul Laverty e nella regia di un Loach leggero come un René Clair, l’amore per il calcio e quello per il cinema, il mondo del tifoso e quello dello spettatore, la sala cinematografica e lo stadio. Sotto quest’ottica, gli inserti puramente sportivi delle magie dell’Eric calciatore, nei vividi flashback dell’Eric postino alla ricerca della felicità, raggiungono probabilmente uno dei punti più alti nella difficile convivenza del mondo del pallone con quello di celluloide. Looking for Eric sembra mettere in scena allora la riconciliazione di due amori impossibili: calcio e cinema certo, ma anche la storia di due adulti, ormai anziani, a cui l’amarezza della vita ha rubato gli anni migliori. All’interno del cinema sociale di Ken Loach si fa quindi spazio il melodramma, lontano tuttavia dal camp delle storie di Van Sant, dalle derive metatestuali di Almodóvar e dalle asfittiche regole di Von Trier. “Se si ha l’amore in corpo, non serve giocare al flipper”, diceva quasi quarant'anni fa Rainer Werner Fassbinder, uno che di melodrammi se ne intendeva e aggiungeva che “l’amore costa fatica”, che “si è liberi soltanto nelle limitazioni” e che “non c’è cosa più terrificante che l’aver paura del terrore”. La paura di sbagliare, di commettere nuovamente gli stessi errori, quelli che hanno condizionato buona parte dell’esistenza, spingono Eric il postino letteralmente contromano, mentre il mondo intero gira nel verso opposto. Eric il calciatore allora offre la propria esperienza attraverso il ricordo della lunga squalifica di nove mesi durante i quali, per riuscire a ritrovare se stesso, si dedica allo studio della tromba. I trenta secondi in cui Cantona strappa all’ottone le stridule note della marsigliese mentre la macchina da presa panoramica sui tetti della città e su un parcheggio dove alcuni ragazzini giocano, ovviamente, a calcio è innanzitutto un momento di grande cinema e la dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che Loach riesce egregiamente a destreggiarsi tra la prosa e la poesia.

Eric Cantona, evocato grazie a qualche grammo d’erba di buona qualità, aiuta quindi Eric Bishop a cambiare letteralmente prospettiva, in maniera molto simile per certi versi a quanto avviene al protagonista di un’altra gustosa commedia in programmazione nelle sale in questi giorni, A Serious Man, dei fratelli Cohen. Ad accomunare le due pellicole anche il sottotesto noir che vede i rampolli dei due sfortunati personaggi alle prese con un bullo di quartiere: in Looking for Eric in realtà, più che un bullo, a creare dei problemi (come se non ce ne fossero già abbastanza) è nientemeno che il Profeta, un bieco personaggio invischiato in loschi affari. Ovviamente anche il registro poliziesco è trattato da Loach con il consueto realismo e offrirebbe interessanti spunti di riflessione (che per ovvi motivi di spazio non è possibile affrontare in questa sede) sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, dalle immagini televisive delle partite di calcio cui si accennava poco sopra alla soluzione YouTube come gogna mediatica, vera anima della vendetta dell’armata dei Cantona. Le jour de gloire est arrivé! Postini di tutto il mondo unitevi. Il Loach marxista non rinuncia alla lotta di classe, nonostante la messa in scena ridanciana e i momenti di commozione, ma del resto il suo cinema impegnato ha sempre viaggiato in parallelo a Brecht senza quasi mai incrociarlo, funzionando in ogni caso. Non si può guardare da lontano il cinema di Loach, quel cinema fatto anzitutto di persone, quel cinema che è imitation of life. La mimesi è quasi d’obbligo, è la catarsi che manca. La vita vera, del resto, Loach non ha mai avuto paura di raccontarla e non si tira indietro neanche stavolta, nemmeno se ha degli ospiti importanti. Il suo occhio non è mai stanco di seguire la quotidianità, i piccoli gesti, i riti domestici che rendono quei personaggi e gli ambienti che abitano così vicini, così autentici. I luoghi sono i soliti: la casa, il pub con la nutrita schiera di avventori dal ventre obeso, la strada. Il mondo fuori è duro, nerissimo, ma per questa volta sembra aprirsi uno spiraglio di luce, un barlume di speranza, la possibilità di poter scegliere un’altra strada, di trovare un modo di uscire dai guai. Riuscire a riguadagnare la fiducia in se stessi accettando l’aiuto degli amici è un messaggio di solidarietà che rende questa sorta di amara parodia del Christmas Carol dickensiano particolarmente adatta alla distribuzione prenatalizia.

Tuttavia la retorica e il buonismo, manco a dirlo, sono lontani anni luce dallo stile in ogni caso impietoso di un Loach che pur all’interno di una cornice da commedia fantastica-noir-melodrammatica non esita a mostrare nell’happy ending l’abbraccio ingessato di un amore ancora impacciato che dona un retrogusto amaro ad una riconciliazione tuttavia incompiuta, o che si spera, in progress. Aveva in ogni caso ragione Fassbinder, “i film liberano la testa”.

TITOLO ORIGINALE: Looking for Eric; REGIA: Ken Loach; SCENEGGIATURA: Paul Laverty; FOTOGRAFIA: Barry Ackroyd; MONTAGGIO: Jonathan Morris; MUSICA: George Fenton; PRODUZIONE: Belgio/Francia/Gran Bretagna/Italia; ANNO: 2009; DURATA: 116 min.

 


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