Conversazione con Stefano Incerti PDF 
Anna Barison   

Esce nelle sale Complici del silenzio, un film che racconta le atrocità del regime militare in Argentina alla fine degli anni Settanta, periodo fortemente contrassegnato dalla violazione dei diritti umani. Ne parliamo con il regista napoletano Stefano Incerti, da sempre attento nel trattare argomenti spinosi, in linea con un certo cinema indipendente e di denuncia che si discosta per contenuti e istanze dalla produzione mainstream italiana.

Complici del silenzio affronta un tema scottante e poco frequentato al cinema: i desaparecidos, scomparsi negli anni della dittatura argentina. Nel 1978, anno in cui è ambientato il film, in Italia ci fu il rapimento Moro e le BR iniziarono ad occupare gran parte dello spazio sui giornali, "oscurando" di fatto la dittatura in Argentina e i suoi crimini. Lei perché ha deciso di raccontare questa storia?
All’inizio ero preoccupato e mi sono accostato con titubanza a questo argomento. Anche per L’uomo di vetro è successo così. Quel film parlava di mafia e, non conoscendo bene la materia, avevo paura di fare l’ennesimo film sul tema, mitizzando l’argomento secondo i canoni di certa filmografia. Invece ho intrapreso una strada diversa, ho cercato di capire il circuito mafia dall’interno, trovando una congiuntura diversa, di capire cioè la follia di quei personaggi. Con Complici del silenzio l’atteggiamento è stato lo stesso. Mi interessava raccontare la dittatuta di Videla in un momento particolare, durante i mondiali di calcio in Argentina, attraverso lo sguardo dei suoi protagonisti. Ho scoperto che a meno di un kilometro dallo stadio in cui si giocava, nei sotteranei di una scuola, si torturavano dei connazionali senza che nessuno se ne accorgesse, mentre fuori tutti erano in delirio per il calcio. Non era una guerra civile, ma era ben peggiore perché si colpivano persone innocenti nella più totale riservatezza, e chi cercava di parlare veniva prelevato, torturato e fatto scomparire. Questa vicinanza geografica tra lo sport e le torture è una cosa che mi ha fatto riflettere molto e che ho trovato inquietante. 

Al centro del film c'è anche l’attività dei guerriglieri. Che cosa ha potuto comprendere della guerriglia in rapporto al regime che nel giro di pochi anni ha fatto sparire più di 30.000 persone?
I guerriglieri erano persone semplici, con un lavoro come tanti, ma che si ritrovarono ad essere accusati di sovversione solo per aver osato parlare di certi argomenti tabù per il potere. Ho usato lo sguardo di un estraneo, il giornalista italiano interpretato da Alessio Boni, per capire e disvelare a poco a poco certi valori di libertà e giustizia sociale che loro inseguivano. Il protagonista si accosta al loro mondo e si trasforma in una persona diversa. La scena del rastrellamento in chiesa avvenuto da forze autorizzate è accaduto realmente, un po' come accadeva con i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale: prelevati e uccisi solo per aver assitito al funerale di un professore. Mentre giravo mi sono accorto che questo periodo buio era sentitissimo dagli attori del posto, perché la rimozione di quegli anni non c’è mai stata realmente in Argentina, portando a lacerazioni molto profonde e a problemi mai risolti. La cosa impressionante è che alcuni argentini sostengono ancora quella dittatura, minimizzando i suoi effetti devastanti per il proprio paese. Esiste tutt’oggi una connivenza con il passato, tanto che molti politici di allora si sono riciclati nelle cariche istituzionali. Lo stesso dittatore Videla non è nemmeno in carcere ma agli arresti domiciliari.

Una recente sentenza italiana ha stabilito la condanna all’ergastolo di cinque ex membri della marina militare argentina per i fatti di 30 anni fa. Questo può essere considerato un inizio o c’è ancora molto da fare per portare a galla la verità?
La mia è stata un’occasione preziosa per raccontare un triste periodo che non dev’essere dimenticato, una tragedia che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio genocidio e che coinvolse moltissimi nostri connazionali. Credo possa essere l’inizio, ma c’è ancora molto da fare.

Il film è ambientato durante i mondiali di calcio del 1978, giocati in Argentina nonostante il regime, che aveva fatto di tutto per nascondere le sue atrocità al mondo. I giornalisti stranieri di allora affrontarono il problema come descritto nel film?
Il caso più clamoroso fu quello di Gianni Minà, che affrontò a viso aperto il problema: fu subito prelevato con la forza, gli fu sequestrato il passaporto e venne espulso dall’Argentina in tutta velocità. La scena in cui Videla apre i mondiali è un’immagine di repertorio, è emblematica perchè sembra un capo che dichiara guerra ad uno stato e non uno che inaugura dei giochi sportivi. Del resto si sa per certo che l’Argentina ha corrotto almeno due squadre per vincere i mondiali, perché lo stesso Videla sapeva dell’importanza di una vittoria per nascondere all’opinione pubblica certe atrocità. La situazione è molto attuale: basta vedere la Cina e le ultime olimpiadi. Il monito che mi sento di fare è che si deve prestare attenzione nel considerare la democrazia come unica forma di libertà e progresso. Perché non si può consentire ad un dittatore pazzo o a un potere assoluto, come in Cina, di eliminare il diritto alla democrazia.

Parlando dei protagonisti: come ha scelto e che ruolo hanno i due attori Alessio Boni e Giuseppe Battiston?
Battiston, viste le sue caratteristiche, ha il ruolo di sdrammatizzare il tono del film. All’inizio è una specie di vacanza la loro, vanno infatti a seguire come giornalisti i mondiali, poi però la tensione si costruisce pian piano, suggerendo le cose un po’ alla volta ed entrando nella sostanza del film. Alessio Boni ha entrambe le facce, è credibile come “belloccio” e come uomo impegnato. All’inizio rappresenta il tipico superficiale che cerca attraverso questo viaggio di risollevarsi il morale e di divertirsi, perché in Italia ha problemi con la sua fidanzata. Poi però, innamorandosi di una guerrigliera e delle potenzialità che gli offre il suo lavoro, riesce a scoprire una realtà più grande di lui, che lo sconvolge e lo fa crescere come personaggio. Diventa un eroe che subisce le torture per amore della sua donna e per amore della libertà. Un’altro aspetto che ho voluto sottolineare è che frange della sinistra estrema italiana, come le Brigate Rosse, finanziarono la guerriglia. E, infatti, il protagonista consegna a quella che diventerà la sua donna dei soldi che arrivano dall’Italia, diventando da persona ingenua a complice. In questo suo percorso di crescita c’è la consapevolezza che la sua vita prenderà una nuova direzione.

Il suo cinema racconta sempre situazioni ai margini, di invisibili, come appunto i desaparecidos. Mi riferisco a Il verificatore, Prima del tramonto, L’uomo di vetro. Da dove nasce questa esigenza di raccontare storie così lontane dagli stereotipi borghesi affrontati nel cinema italiano di oggi?
Ci sono due motivi principali. Il primo è che ho una consapevolezza "tecnica". Ovvero so che i personaggi sotto pressione, che la vita ha costretto all’angolo, sono più interessanti perché devono in ogni modo cercare di reagire per sopravvivere. Persone agiate e tranquille, invece, non sono per nulla interessanti, proprio perché immobili. E questo vale anche per i paesi: l’Italia in guerra ha portato all’avvento del Neorealismo, un cinema dinamico che ha sfornato capolavori. Il secondo è un motivo speculativo. Il mio, infatti, è un desiderio di fare un percorso diverso da quello a cui ci ha abituato il cinema italiano, discostandomi dalla logica borghese o peggio ancora dalla televisione, per la quale mi sono sempre rifiutato di lavorare. E poi i film di un certo genere, di nicchia se vogliamo, sono venduti molto all’estero: L'uomo di vetro, ad esempio, ha ottenuto molti riconoscimenti fuori dall’Italia. Il fatto poi che Sky abbia creduto in me prima che il film fosse finito mi ha fatto ben sperare. Nel nostro paese è difficile fare film come questi, perché chi prova a sperimentare trova molti ostacoli nella distribuzione. Con questo film ho cercato di bilanciare una storia d’amore con il contesto storico, ma è comunque un film lontano da certi schemi predefiniti.

Alcuni critici dicono che lei è entrato a far parte della cosiddetta “nuova generazione napoletana” che comprende De Lillo, Corsicato e Martone, con il quale ha spesso collaborato. Esiste una sorta di scuola del cinema napoletano? E se sì con che spirito affrontate il cinema?
Sì, è da un po’ di anni che si parla della scuola napoletana, che comprende De Lillo, Sorrentino, Corsicato e Martone. Tra loro, io sono uno dei pochi che continua a vivere a Napoli. Diciamo che il nostro è un atteggiamento di indipendenza dal “sistema Roma”, vogliamo fare un cinema diverso, in autonomia, magari con attori non conosciuti e attuando scelte ardite, vogliamo un cinema “non italiano”, che si possa esportare all’estero. La new wave napoletana comprende gli stessi attori e tecnici. All’inizio ci additavano come snob, ma in realtà non è così, noi vogliamo creare una nostra poetica personale che si discosti dal già vìsto o dal già sentito. Con I vesuviani ci accusarono di aver creato il nostro manifesto, e così non andò bene, ma era la linea editoriale della società.

 


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