Hunger: lo splendore dei supplizi PDF 
Matteo Marelli   

Come sostiene Foucault “il corpo è […] immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano” (1). Bobby Sands, simbolo dell’attivismo nordirlandese, rese esplicite le dinamiche biopolitiche radicalizzando la propria detenzione all’interno degli H-Blocks (i bracci speciali della prigione di Long Kesh, ribattezzata Maze, il labirinto) proprio per denunciare la coercizione come arbitrario e disumano esercizio del potere. Spinto da tanta e così disperata forza di contestazione, Sands oppose tutto sé stesso, fece del proprio corpo la sua arma. Consapevole che attraverso l’assottigliamento del supporto, la sua smaterializzazione, si ottiene un massimo di penetrazione capillare, condusse la propria lotta sino alle conseguenze estreme di un depauperamento scheletrico e ansante.

Il dissolvimento di Bobby, tappa ultima di un progressivo annientamento autoimposto, ha come fine quello di ottenere dal governo Thatcher il riconoscimento dello status di prigionieri politici per lui e i suoi compagni. I passaggi intermedi di questo atto finale d’accusa sono in un primo momento la blanket protest, sviluppantesi poi nella dirty protest; un graduale processo d’annullamento per mezzo del quale esasperare il rapporto castigo-corpo. Sands decide di combattere la sua battaglia esibendosi nello spettacolo della propria detenzione. Egli capisce che soltanto attraverso questa extrema ratio gli è possibile far cortocircuitare le funzioni della cerimonia penale, rendendo evidente come questa eguagli, se non addirittura sorpassi, nell’essenza selvaggia il crimine che è chiamata e reprimere. In un certo senso Sands opera secondo le logiche della società spettacolare: la giustizia, non addossandosi più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio, lascia il campo della percezione quotidiana. La punizione, in quanto detenzione, è resa la parte più nascosta del processo penale. Bobby vuole che la sua condanna assuma la visibilità di un'esecuzione pubblica, solo così potrà fare di sé oggetto di ammirazione. Il suo corpo suppliziato deve essere come il supporto pubblico dell’atto di giustizia. Portando fisicamente inscritta la propria pena egli attesta la verità della sua condanna.

Questo alto coefficiente di rappresentatività e spettacolarità rende la parabola di Bobby Sands particolarmente adatta a essere riletta cinematograficamente. Dopo Some Mother's Son di Terry George, e Il silenzio dell’allodola di David Ballerini, esce ora, nelle sale italiane - con quattro anni di ritardo a causa della coltre d’ottundimento che incombe sulle scelte di investimento delle nostre società di distribuzione, le quali ritennero l’opera inadatta al mercato -, Hunger di Steve McQueen, con Michael Fassbender. Solo in seguito al successo di Shame si è deciso di distribuire l’esordio filmico di McQueen, video-maker affermatosi nelle file degli Young British Artists, diventato nel frattempo vero e proprio cult della massoneria cinefila online. Cercando di fare di necessità virtù, possiamo dire che l’aver visto a posteriori quest’opera prima ci permette di inquadrare nella giusta maniera un nucleo tematico, che sarebbe comunque emerso, ma messo in relazione con il film successivo possiamo a ragione considerare come termine chiave della poetica artistica di McQueen: il corpo come terreno di scontro; il corpo massacrato e quello che si martirizza. Se in Shame, quello di Fassbender, è un corpo che si dibatte in una prigione autofabbricatasi, imbrigliato com’è nei propri istinti, in Hunger l’operazione è ribaltata. Qui c’è un uomo che attraverso il proprio corpo, portandolo all’estremo delle sue possibilità, riesce a trovare una drammatica, ideale libertà, nonostante la detenzione carceraria.

Il regista non cela la propria formazione “artistica”, anzi, nel confronto con l’oggetto del contendere, questa viene esaltata. La battaglia di Bobby Sands è occasione per McQueen di riflettere sul corpo come linguaggio. Egli fa del combattente dell’IRA una sorta di body artist che elabora una strategia di denuncia icastica, irriverente, brutale, talvolta aggressiva, dove la contestazione politica si lega a istanze di natura schiettamente esistenziale; quella di Bobby è un’affermazione violenta della propria soggettività “legata alla necessità di mostrarsi per poter essere” (2). Il suo è un corpo eroico, militante e politico: celebrato, esibito, torturato, vilipeso, vissuto, a tratti ostentato e martirizzato. L’operazione ha però una sua ambiguità. Per McQueen, Sands non è soggetto ma oggetto da piegare alla propria volontà registica. I fatti ci vengono presentati quasi completamente estrapolati da un contesto storico-sociale; nell’intento dell’autore di elevare la battaglia di Sands al di sopra della Storia per trasfigurarla in martirio, la causa irlandese rimane sempre sullo sfondo. Non è dato sapere le ragioni sottese alla violenza sfociante sia da parte dei detenuti che dei secondini. La protesta della fame è pretesto per sondare in chiave estetica il limite di resistenza di un'esistenza.

Il corpo di Sands/Fassbender è fotografato dal regista, non senza una certa morbosità, come una forma chimerica che non appartiene ad alcuna tassonomia riconosciuta. Ciò che McQueen ricerca e trasmette è prima di tutto un’esperienza stilistica; come altro leggere quei muri lordati di merda ripresi quasi fossero dinamici grovigli spiraliformi somiglianti a un action painting del più vigoroso espressionismo astratto? Il mondo è diventato una vetrina, ha scritto Anders, e noi ci stiamo dentro. Come evidenziato da Vitaliano Corbi, questo fenomeno ha portato le arti visive alla perdita delle loro specificità culturali e linguistiche, dal momento che la realtà stessa è stata coinvolta in un processo di estetizzazione universale. "Vetrinistica Pop" è, forse, l'espressione più efficace per le opere di un artista che inscatola l'orrore con effetti di gelida e morbosa eleganza. In Hunger si è di fronte a un’algida mercificazione e a un’attività feticistica del simbolo. Un’operazione che si colloca nel solco di quel nuovo tipo di sensibilità, di cui Perniola ha tracciato le linee di sviluppo, che si concentra sul sentire come sensazione; per questo motivo quella attuale potrebbe essere interpretata come un'età estetica, “perché il suo campo strategico non è quello conoscitivo, né quello pratico, ma quello del sentire, dell’aísthēsis” (3).

Con questo non si vuol giudicare negativamente l’esito; il film ha soluzioni registiche davvero interessanti, basti pensare alla progettazione del suono che in certe sequenze, come ad esempio quella d’apertura, diventa vera e propria musica concreta, rumorismo fatto immagine; oppure il piano sequenza che filma il lungo colloquio tra Bobby e padre Dominic, dove le motivazioni edotte dal militante circa il proprio digiuno/suicidio assumono i toni di un’appassionata orazione gravida di connotazioni oscure e ondivaghe, cristologiche, sociopolitiche, idealistiche, ciniche, escatologiche. Quello che si mette in discussione è l’intento e di conseguenza quel sistema di valori che fagocita tutto in una deriva estetizzante.

Note:
(1) M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2009, p. 29.
(2) L. Vergine, Il corpo come linguaggio. La “Body Art” e storie simili, Giampaolo Prearo Editore, Milano, 1974, p.8.
(3) M. Perniola, Del Sentire, Einaudi, Torino, 1991, p.3

 


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