Il migliore PDF 
Matteo Marelli   

Barry Levinson ha dato molto al cinema hollywoodiano. Innanzitutto alcune ottime sceneggiature. Le prime furono quelle realizzate per Mel Brooks, che propose a Levinson di partecipare alla scrittura di L'ultima follia (1976) e Alta tensione (1977), occasione che gli permise d’affinare il mestiere di autore brillante, come dimostrerà firmando Tootsie (1982) di Sydney Pollack. Come produttore ha sostenuto l’enfant prodige Steven Soderbergh, finanziando Delitti e segreti (1991), ambiziosa regia realizzata dopo il folgorante esordio di Sesso, bugie e videotape (1989), ed ha aiutato Mike Newell a vedere realizzato il suo Donnie Brasco (1997) e Joe Dante per La seconda guerra civile americana (1997). Si è dimostrato un regista di solido mestiere, a volte cedevole a velleità autoriali, ma sempre capace di far fruttare al meglio i propri interpreti: con lui Dustin Hoffman si aggiudica il suo secondo Oscar come miglior attore protagonista per l’interpretazione di Raymond, in Rain Man (1988); e Robin Williams il suo secondo Golden Globe come miglior attorte protagonista per la performance di Adrian Cronauer, il vulcanico disc-jockey di Good Morning, Vietnam (1987).

Nel 1984, due anni dopo aver esordito dietro la macchina da presa con A cena con gli amici, Levinson è chiamato dirigere Il migliore, progetto che può permettergli di affermarsi definitivamente come regista. Sorta di termini di garanzia dell’operazione sono la presenza di Robert Redford come protagonista e l’omonimo romanzo ispiratore di Bernard Malmud, considerato uno dei più grandi romanzi americani del dopoguerra. Malmud, che insieme a Saul Bellow e a Philip Roth, forma quello che lo stesso Bellow chiamava "il triumvirato ebraico delle lettere americane”. La storia è quella di Roy Hobbs, giovane ragazzo di provincia che nella vita vuole diventare il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi. Il migliore, appunto, come recita il titolo. Il talento e i contatti giusti per riuscire nell’impresa ci sono. Nulla sembra poterlo ostacolare. Eppure qualcosa va storto. Un evento decisamente inaspettato scombina i piani. In treno, durante il viaggio per andare a proporsi ad una squadra della major league, una misteriosa dark lady, dopo averlo sedotto, gli spara mettendolo fuori gioco e compromettendo la sua carriera. Attraverso una spregiudicata ellissi temporale di quindici anni, dei quali quasi nulla viene raccontato, Roy ritorna in scena. All’età in cui di solito i professionisti abbandonano l’attività, lui riprende da dove era stato costretto ad interrompersi. Ricomincia la propria risalita nella squadra dei Knights, dagli ultimi posti della classifica, per arrivare, dopo distrazioni e tradimenti che lo tengono sempre a un passo dalla grandezza, a battere l’home run decisivo per vincere l’insperato scudetto.

Un finale, differente rispetto all’originaria fonte letteraria, di pirotecnica ruffianeria in cui i buoni sono premiati e i cattivi sconfitti. Può sembrare restrittivo articolare in questi termini l’analisi del film, ma è del tutto legittimo di fronte al lavoro di riduzione che Levinson (oltre che regista anche sceneggiatore) ha compiuto sul testo di Malmud, la cui particolarità è quella di possedere il ritmo incalzante della migliore cronaca sportiva (tanto da riuscire ad entusiasmare anche i profani di baseball) e lo spessore del romanzo epico. Come ha evidenziato Elena Inversetti ne Il migliore si racconta “l'epopea di un eroe che per il tempo che gli viene concesso riesce a prendere vantaggio fino a staccarsi dall'uomo comune”. Malmud riesce a far lievitare la sua storia a livelli mitici attraverso l’inserimento di elementi fantastico-simbolici: eventi, coincidenze, incontri, oggetti portatori di un significato altro rispetto a quello che rappresentano nell’immediato. Su tutti  “Wonderboy”, la mazza da gioco che Roy si è costruito recuperando il legno di un albero spaccato da un fulmine, ma anche le femmes fatales che attentano al rigore dell’eroe e lo vogliono allontanare della “purezza” necessaria al perseguimento del suo ideale. E poi il dado che segna sempre lo stesso numero a seconda di chi lo lancia, e l'occhio di vetro che tutto indovina dell'allibratore.

Purtroppo Levinson non sa dare il giusto rilievo a questi aspetti, preferisce lavorare sulla rievocazione nostalgica degli anni Venti, operazione peraltro messa a segno in maniera un po’ didascalica, ovvero per mezzo di una fotografia che impasta colori caldi e morbidi e inquadrature pittoriche che rievocano i dipinti di Edward Hopper. Adottando un taglio stilistico fortemente realistico, l'intervento del fantastico perde di efficacia e risulta del tutto ingiustificato, ininfluente ai fini dello  sviluppo della vicenda, un fastidioso sovrappiù. Il sovrasenso simbolico del testo letterario, che fa di Roy Hobbs una sorta di moderno Parsifal, è quasi totalmente assente da quello filmico. Il lavoro di semplificazione condotto da Levinson si fa sentire soprattutto sui personaggi secondari che fanno da contraltare al character principale, tutti portatori di una precisa posizione morale (o amorale), senza appello né ambiguità.

Per quanto bravo anche Robert Redford (ripreso attraverso estenuanti ralenti, biondissimo e ridente, impegnato a correre in campi ancora più “biondi”) non riesce ad essere credibile nei panni di Hobbs. L’interpretazione che offre è inficiata dalla sua icona. Nell’immaginario collettivo Redford è la proiezione filmata del sogno kennedyano, volto cinematografico che incarna gli ideali della tradizione democratica, tollerante, schierato dalla parte degli umili. È, in definitiva, troppo radical-chic per portare in scena un ragazzone di splendida ignoranza come quello raccontatoci da Malmud.

TITOLO ORIGINALE: The Natural; REGIA: Barry Levinson; SCENEGGIATURA: Phil Dusenberry, Roger Towne; FOTOGRAFIA: Caleb Deschanel; MONTAGGIO: Christopher Holmes, Stu  Linder; MUSICA: Randy Newman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1983; DURATA: 118 min.

 


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