L’ultimo film di Gabriele Salvatores, tratto dall’omonima commedia di Alessandro Genovesi (presente anche come sceneggiatore) e prodotta dal Teatro dell’Elfo (fondato dallo stesso regista nel 1972 a Milano), è un film punk, almeno secondo la definizione che di tale sottocultura ha dato Matt Mason nel suo libro Punk Capitalismo: “una cultura che ha fatto del riuso – non autorizzato – delle immagini e della musica preesistenti la propria cifra stilistica”. Niente di male dunque. Il regista premio Oscar di Mediterraneo non è mai stato uno che si accontenta, soprattutto se riferiamo la sua opera al panorama italiano. Salvatores, dopo aver provato e sperimentato di tutto, dalla commedia on the road degli inizi alle suggestioni fantascientifiche della maturità (Nirvana e Denti), fino ai grandi best seller post cannibali di Nicolò Ammaniti, è approdato al taglia e cuci di alta sartoria.
Happy Family è ben girato, il lavoro sulla fotografia deve aver portato via del tempo e gli attori sono bravi e sistemati con delicatezza nei panni a loro più congeniali. Se ci mettete che ogni tanto ci scappa pure una risatina … Poi però l’impressione finale è quella di aver sfogliato una patinata rivista di design (chiedere allo scenografo per conferma, pare non riesca a smettere di importunare gli edicolanti in cerca di tutti i numeri di AD). Guardi e riguardi e dici “urca che bel divano … dai un occhio a questo particolare … interessante quel quadro”. E già, solo che poi sui divani ci si devono sistemare le terga e se sono curvi le chiappe dolgono. Happy Family è così, saccheggia qua e là, scippa da Méliès e dai suoi epigoni gli sguardi in macchina, da Wes Anderson i personaggi complessati e pop, da Kaufman e soci l’intreccio tra personaggi irreali e super irreali, dal Mark Renton del finale di Trainspotting la tirata sui mali della modernità (qui declinata al tema della paura), e per non farsi mancare nulla, citazione finale da cinefili blockbuster de I soliti sospetti. De Luigi fa De Luigi, solo un poco più triste e tormentato, Abatantuono fa Abatantuono, cosa che evidentemente gli riesce bene da circa un ventennio, e Margherita Buy, udite udite, fa Margherita Buy, magari più sobria, meno nevrotica e complessata, ma qui deve trattarsi di cambio di farmaci dagli antidepressivi alla naturopatia. La famiglia intesa nel titolo è l’umanità intera, dice Salvatores, il quale deve aver annusato nell’aria l’inflazione di tematiche domestiche rifilateci in una sola stagione dai registi nostrani (in ordine sparso e con esiti differenti Veronesi, Virzì, Verdone, Muccino, Avati, Soldini, Ozpetek). Detto ciò, non essendo possibile tirar fuori una succosa parentesi di sciamanesimo new age alla Jodorowsky junior (vedi alla voce seminari sulla famiglia come germe dei mali dell’individuo), ci si è dovuti accontentare dei quadri dell’artista e pittore Marco Petrus.
Oh!!! Non crediate che non sia leggero, delicato, piacevole, svolazzante, pindarico, pirandelliano … no no cari c’è proprio tutto. Se riuscite a tenerlo a mente mentre tornate a casa dal cinema magari ricorderete abbastanza da poter riferire a vostra moglie dove eravate finiti nelle ultime due ore mentre lei era a fare la spesa e correva ritirare il pargolo all’asilo.
TITOLO ORIGINALE: Happy Family; REGIA: Gabriele Salvatores; SCENEGGIATURA: Alessandro Genovesi, Gabriele Salvatores; FOTOGRAFIA: Italo Petriccione; MONTAGGIO: Massimo Fiocchi; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2010; DURATA: 90 min.
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