Gertrud: amor omnia - Carl Theodor Dreyer PDF 
di Domiziano Pontone   

Dreyer girò Gertrud, suo ultimo film, a 75 anni. Lo spunto di partenza fu un dramma teatrale di Hjalmar Söderbergh, al quale Dreyer aggiunse un finale completamente inventato. In questa chiosa il regista danese racchiuse il suo testamento spirituale.

Dalle sue prime pellicole mute sino a Gertrud, Dreyer aveva intrapreso una cosciente e progressiva discesa verso la sospensione dello stile e il suo asciugamento. Principe del primo piano e del piano sequenza (ipomovimentato), in quest'ultimo capolavoro il cineasta ribadisce i suoi caratteri distintivi e li conserva come sotto una campana di vetro. Rallenta il ritmo, lascia spesso ferma la cinepresa, preferisce che il tono recitativo sia come congelato e si permette un solo passaggio vertiginoso. Quest'ultimo si riferisce a un'entrata in campo di Gertrud, resa significante da uno specchio marcato da due candele: il marito (sulla sinistra) sa che sta per essere lasciato e, mentre riflette amaramente su questo, compare la moglie (da destra) nella maniera succitata. Tale apparizione – vera e propria epifania – tradisce due stati d'animo del marito: da un lato il suo desiderio, esplicitato dal solo specchio, che la coniuge resti al suo fianco ("specchio, specchio delle mie brame"), dall'altro la sua improvvisa divinizzazione della stessa Gertrud divenente, secondo la metafisica cristiana, Una (in quanto spiegelbild, ovvero immagine allo specchio) e Trina (è affiancata da due lumi identificantisi con le altre due estrinsecazioni della divinità).

La figura della protagonista – l'ottima Nina Pens Rode – è un monumento alla coerenza e alla cocciutaggine, distillato miracoloso di meccanicismo e di follia passionale. Attorniata da uomini che la amano e che in alternanza anche lei ha amato o ama, questa sorta di pulzella d'Orléans dell'amore decide di immolarsi sul rogo della solitudine piuttosto che contraddirsi. Così facendo richiama in vita la dolente Renée Falconetti de La passione di Giovanna d'Arco e la Lisbeth Movin di Dies Irae, figure femminili altrettanto potenti e determinate nell'andare incontro al destino.
I tempi sono cambiati e Gertrud può evitare il gesto estremo, ma la profonda sensibilità la porta ad ammettere che è il momento di cessare di amare in senso concreto, per chiudersi in un romitaggio del sentimento struggente e punitivo. Novella eautontimoruméne (ovvero, punitrice di se stessa, Terenzio docet), Gertrud china il capo con signorilità ed esce di scena con dignità, dimostrando di avere in se stessa più forza dei suoi tre stolidi amanti messi insieme.

L'impostazione recitativa degli attori appare talora sin troppo teatrale, ma a ben guardare non si tratta di un artificio dovuto all'origine da palcoscenico della pièce, quanto piuttosto di un'esigenza stilistica di Carl Theodor Dreyer: immergere in un ambiente raffreddato – come quello dell'alta borghesia svedese del primo Novecento – una vicenda palpitante che ne scardini la gelida perfezione sociale delle apparenze (perfettamente stigmatizzata dalla cena in onore del poeta Lidman, alla quale tutti sono presenti col corpo e le parole ma nessuno lo è con lo spirito). In questo senso, il gioco attoriale così trattenuto e anti-mediterraneo ben si confà all'ascetica visione narrativa e compositiva del regista nordico.

Le abitazioni sono linde, i vestiti perfetti, le reazioni contenute, la natura rispettata, le luci tenui (la fotografia è a basso contrasto), i movimenti di macchina accarezzanti e i close-up meno incisivi del solito. Tutto è soffuso. Lo deve dunque essere anche la performance dell'interprete.
Dreyer mette in scena l'implosione dei sentimenti dei tre uomini e la accosta all'esplosione di Gertrud. Costei, di fronte alla trattenuta esposizione affettiva dell'uomo, si autopunisce e vira anch'essa verso l'implosione, a ciò costretta dal suo essere (o essere stata) in secondo piano dinanzi al lavoro e al successo o sbeffeggiata da un giovane scapestrato. Quella di Gertrud è anzitutto la storia di un donna colma d'amore che non è riuscita a trovare l'uomo giusto al momento giusto; è la vicenda di una frustrazione tremenda e dello spreco di una grandissima capacità di dare.
Come sempre, l'impostazione del maestro danese è una diretta derivazione, in forma contenutistica e stilistica, della dogmatica luterana, risolutamente secca, trattenuta, greve. Sotto questo profilo lo stupefacente Ordet – La parola (penultima pellicola del filmmaker) è il non plus ultra del cinema dreyeriano.

Il dramma termina con la partenza in solitaria di Gertrud, ma Dreyer preferì inserire una postilla decisiva. Sono passati decenni e la testarda protagonista, ancora sola, riceve la visita di un amico (un nascosto spasimante di alcuni anni addietro). A costui lei confida il segreto della sua vita: Amor Omnia. Legge una poesia da lei stessa composta prima di qualunque relazione, toccante, succinta e densa di composto rimpianto (come se si prospettasse il futuro). Tutto in nome dell'amore. Carnefice di cuori e al contempo vittima dell'insensibilità dell'uomo, l'eroina del sentimento si erge fiera sulla pira dell'eremitaggio prescelto e coglie gli ultimi petali della sua vita, promettendo che anche al suo congedo ultimo tutto sarà immolato sull'altare del liebe. Non un nome sulla tomba, ma la scritta Amor Omnia, non una lastra di marmo, ma anemoni.
Struggente, escatologico messaggio di una donna indomabile e di un regista leggero come una piuma con la cinepresa, ma verticale come un filo a piombo nell'analisi dell'animo umano.

 


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