The Passion of The Christ: c’è dio? PDF 
di Roberto Moliterni   

The Passion of the Christ apre le porte ad una riflessione che si dovrebbe fare – meglio che è stata già fatta e che viene qui confermata – sul cinema e cioè che esso non è più un anello a sé stante della catena dei media, ma che entra a far parte di tale catena tramite un profondo legame. Un film non dura più due ore, ma due ore più due minuti al telegiornale, cinque sul giornale, un'ora da Vespa, mezzora da Marzullo (forse un quarto d'ora considerando il resto speso in "andate al cinema, andiamo al cinema, ma guardate, guardiamo anche la televisione…"), trenta secondi di trailer e così via.

Ora, in alcuni film questo aspetto è più o meno rilevante, ma nel nuovo film di Mel Gibson determinante. Uno spettatore qualsiasi che si approcci a vederlo o un critico a recensirlo deve per forza fare i conti con tutti i dati che prima di entrare in sala ha immagazzinato. Dati che – penso sia opinione diffusa – hanno creato numerose aspettative, di cui il Ricevente è carico, perfino saturo. Perché dunque si è parlato così tanto di questo film? A ragione? L'idea che qui si vuole sostenere è di no; The Passion of the Christ è, a mio avviso, un film poco più al di sopra dell'ordinarietà, ma di un'ordinarietà molto fragile.

Perché. Il film vive in costante irrisolto conflitto tra un cinema "d'autore", "d'essai" e "commerciale". Meglio: affronta un'esperienza che vuole essere "d'autore" con i mezzi e gli strumenti del "commerciale".

Quali sono i segni che testimoniano questo:

l'uso dell'aramaico e del latino;
una certa apparente secchezza stilistica;
la violenza;
il tema stesso;
forse la scelta dell'ambientazione.

Vagliamo questi punti. Il primo è forse quello che maggiormente, ancor prima dell'uscita, ha provocato maggiori reazioni. E' una scelta estrema, anti-commerciale, specie per l'Italia, patria del doppiaggio. Eppure credo che la curiosità che ha provocato abbia contribuito in misura rilevante al successo. Comunque da un punto di vista autoriale questa scelta, come del resto la seconda e la terza, rientra in un progetto di resa fedele, realistica, antropocentrica – e non teocentrica – dell'esperienza e della sofferenza di Cristo. Considerando che si tratta di Cristo, il realismo è da estendersi anche alla sfera spirituale, tanto è vero che Gibson dissemina il film di demoniache visioni, in verità piuttosto simili a quelle de Il Signore degli Anelli (mancava solo Gandalf a fare Dio…): vogliono significare le minacce, le paure che l'uomo Gesù deve affrontare per prendere sulle proprie spalle il destino di tutta l'umanità. Tutto questo già di per sé banale significare mi pare, però, che sia racchiuso in ancora più banali simbologie e visioni che sfruttano stereotipi intellettuali ormai grattugiati come parmigiano. E' solo estetica di facciata. Così come la violenza, la secchezza stilistica, il latino e l'aramaico.

 

La violenza (tra l'altro non così eccessiva come è stata sapientemente, nel senso del marketing ovviamente, pubblicizzata) non riesce a dire qualcosa di più che "Ecco, guardate, è fatto di carne": concetto pure apprezzabile ma che si ripete per lunghissimi minuti senza approfondire, scavare, sfumarsi. La secchezza stilistica è solo apparente: in fondo lo stile non è molto diverso, per esempio, da quello di un "Gladiatore": ralenti, trattamenti estetizzanti dell'immagine, perfino scelte narrative (i ricordi felici un po' da pubblicità dei biscotti). Ma non è neanche molto diverso, per certi aspetti, da un Braveheart. Anzi forse possiamo dire che The Passion of the Christ è nient'altro che il finale di Braveheart espanso alle due ore, dunque dissanguato di tutta la sua epicità. Espanso sia con espedienti squisitamente tecnici – parlo dell'(ab)uso di ralenti – sia con espedienti narrativi – parlo in questo caso di catalisi. A conferma di questa tesi si pensino a tutti i punti in comune con il precedente film di Mel Gibson: il lungo patibolo, l'amico che guarda inerme dalla folla, la folla irragionevole, i ricordi, una donna "potente" che vuole salvarlo, la violenza.

Quanto al tema, poi, mi aspettavo – forse ce lo aspettavamo tutti, dati i miliardi di discussioni in merito su tv e giornali – un approfondimento maggiore, una più intensa spiritualità, forse anche epicità. Ed anche qui mi pare che la questione sia stata solo sfiorata, toccata in superficie, per niente interpretata e riproposta in maniera personale. Tuttavia, c'è da dire che se si vogliono trovare delle cause per il tanto dibattito intorno al film, è proprio qui che vanno cercate: nel tema. Si sa che la religione è un ambito in cui si può provocare una rivoluzione anche solo introducendo nel rigido sistema una farfalla, perché viene presa per elefante. Questo ha aperto un gran parlare; questo parlare ha attratto quella fascia intermedia di spettatori né vanziniani (frequentatori di sale dal 25 dicembre al 6 gennaio) né greenawayani (per dirne uno da cineclub) che vanno al cinema quando sollecitati dai media.

L'ultimo punto che ho messo in evidenza come segno della presunta autorialità del film è la scelta dell'ambientazione. Probabilmente è involontario, ma scegliendo la città di Matera come set del proprio film Mel Gibson ha voluto ricollegarsi con la tradizione autoriale di Pasolini che lì ha girato proprio Il Vangelo secondo Matteo; il filo pur leggero si sente: lo scenario è lo stesso e spesso anche la gente (il curatore del casting è lo stesso).

 

A questo punto viene solo da chiedersi se ci sia qualcosa di buono nel film. La risposta è sì. Alcune interpretazioni: Jim Caviezel che è straordinariamente espressivo (e a lui si devono i pochi momenti emozionanti del film) e Hristo Naumov Shopov (tutto questo per dire Pilato) davvero molto bravo. A me è piaciuta anche Monica Bellucci e non certo per i soliti motivi fenomenologici, anche perché era molto castigata per poter piacere in quel senso. E poi di buono c'erano alcune intuizioni qua e là, in particolare l'effetto pittorico nel finale con interpellazione. Un film comunque senza identità, informe e neanche godibile, che aspirava, però, ad entrare nell'Olimpo dell'autorialità. Evidentemente Zeus non era in casa.

 


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