Psycho PDF 
di Giampiero Frasca   

La domanda che sorge spontanea, dopo aver visto lo Psycho di Gus Van Sant, è di chiedersi il perché di una tale operazione, dato che la pellicola può solo essere letta in relazione al tanto ingombrante originale e non come opera che si illuda di possedere un'esistenza autonoma. Che senso possa avere rifare sequenza per sequenza, dialogo per dialogo, inquadratura per inquadratura, situazione dopo situazione (utilizzando la stessa sceneggiatura di Joseph Stefano), il capolavoro di Alfred Hitchcock è un quesito che lascia un po' perplessi.

I miti si collocano su un piedistallo inaccessibile, chi tenta di avvicinarvisi inevitabilmente si brucia. "E' come andare a mettere le mani sulla Bibbia", è stato il laconico commento del musicista Danny Elfman, che poi al rifacimento di questa Bibbia cinematografica ha partecipato attivamente riarrangiando le partiture originali di un altro mostro sacro come Bernard Herrmann. Psycho di Van Sant si rivolge direttamente al mito soltanto per un puro atto di amore verso un film che ha contrassegnato la storia del cinema (la dedica nei titoli di coda allo stesso Hitchcock ne è la prova evidente), così come ha fatto anche Douglas Gordon, videoartista scozzese, che, con il suo 24 Hours Psycho , ha dilatato la proiezione di uno dei suoi film preferiti ad un intero giorno per saggiare le potenzialità contemplative della mitologia cinematografica. Per traslato, e in una sorta di sdoppiamento al quale non è aliena la stessa operazione vansantiana, lo Psycho di fine secolo è un'evidente dichiarazione anche verso il cinema tout court , come manifestazione quasi adolescenziale di cinefilia portata all'estremo (e di questo, invece, ne è indiretta conferma, sempre nei titoli di coda, il particolare ringraziamento a John Woo per aver messo a disposizione il suo coltello da cucina).

Van Sant non rilegge e non rielabora lo Psycho hitchcockiano, ma vi si affida totalmente, aggiungendo il colore ed attualizzando il contesto (i soldi rubati da Marion sono quattrocentomila dollari e non più quarantamila, la macchina usata permutata è dell'89 e non del '51, la tariffa per una camera del motel Bates è di 36,50 dollari e supera di ben ventisei dollari e mezzo la quota del '60, lo stesso Norman nella sua camera possiede riviste pornografiche impensabili quarant'anni fa ed un disco pop che sostituisce l'Eroica di Beethoven). Van Sant accostando il suo film all'illustre modello e ricalcandolo fedelmente, non fa altro che edificare il proprio lavoro su una base mitologica preesistente, creando un sistema semiologico secondo che, come dice Barthes (Miti d'oggi , Einaudi, Torino, 1994, p.196), è il regime fondamentale nella formazione del mito.

Lo Psycho di Van Sant utilizza (con rispetto, ci mancherebbe altro...) il segno hitchcockiano (il film del '60) come significante ulteriore nella realizzazione di un altro segno, quello proprio del mito, che Barthes chiama significazione , ossia l'opera rifatta non solo nella sua valenza, ma nella sua globalità con mezzi appropriati all'epoca di produzione (un caso su tutti: il movimento di macchina iniziale, che penetra con perfetta continuità nell'hotel in cui si trovano Marion e Sam grazie ad una giuntura digitale). Ma se la significazione (il segno) è data dall'unione di un significante e di un significato , qual è il senso di quest'ultimo nel discorso portato avanti da Van Sant, che tipo di concetto ha motivato il regista del Kentucky? Psycho è una vera e propria appropriazione, un ready-made alla maniera di Duchamp: ma al contrario dell'artista di Rouen, Van Sant non intende dissacrare il valore di un'opera d'arte, non vuole contestare la venerazione tributata al film (anche se alcuni momenti, contestualizzati diversamente, potrebbero far pensare ad un'intenzione di questo tipo; si pensi alla battuta di una Marion frettolosa, "devi ancora metterti le scarpe", rivolta ad un Sam completamente nudo che chiede di essere aspettato per poter uscire dall'hotel con la propria amata). Il concetto messo in scena dal regista non vuole deformare in alcun modo il mito, ma vuole imporre la propria totalità come senso di appartenenza, come momento in cui si diventa parte di un qualcosa che si è sempre sognato nel passato, una specie di attraversamento dello specchio carrolliano dove è possibile accedere all'interno di una dimensione differente che permetta di respirare una ben definita aura . Ed in questo caso, hitchcockiano è solo una sineddoche per indicare la globalità del cinema. Affascinante, a questo proposito, l'interpretazione offerta dai "Cahiers du cinéma" (n°532, febbraio 1999, p.47), che vede Van Sant come una duplicazione di Norman Bates nei confronti della "Mère Hitchcock", madre di un po' tutti i cinefili, dai "giovani turchi" a Brian De Palma. Ma nello stesso momento in cui il cinefilo impenitente s'impone di attingere l'aura del mito, pone lo Psycho del '60 sotto il segno del feticismo più opprimente, quello, per intenderci, che permette a Norman Bates di imbalsamare la propria madre e conservarla materialmente con le caratteristiche dell'icona (che rimanda in modo metatestuale alla similarità del segno linguistico), ma anche quello che consente di preservare ed inguainare l'oggetto buono cinematografico, come dice Metz, e riproporlo con le medesime caratteristiche a distanza di trentanove anni.

All'interno di questa caratterizzazione, dentro questo tentativo di appropriazione per desiderio di appartenenza, acquistano quindi un'importanza fondamentale tutti gli scarti linguistici (ma non solo), anche i più insignificanti (come la sostituzione del vasetto con cui Norman colpisce Sam con una mazza da golf, lo sport preferito da Van Sant), che generino distanza dalla matrice hitchcockiana e che consentano, al contempo, di riconoscere quei piccoli segnali specifici del talento vansantiano. Lo Psycho del '60 e la situazione familiare ad esso sottesa sembrano il terreno genetico ideale per inserire la narrazione della crisi delle famiglie americane operata da Van Sant nei suoi lavori precedenti (i cui livelli più alti sono l'uxoricidio, il conseguente incesto e il complesso edipico di My Own Private Idaho e le sevizie infantili che causano l'incapacità di amare del "buon" Will Hunting), mentre da un punto di vista esclusivamente stilistico risulta evidente (e in qualche modo incomprensibile) l'inserimento di alcuni frame nelle scene dei due omicidi. Le nuvole che si muovono veloci nel cielo sono ormai considerate il marchio di fabbrica vansantiano fin dai tempi di Mala Noche (anche se si è assistito ad una specie di trasferimento del senso, dato che le nuvole, almeno inizialmente, erano connotate da precisi significati che poi, man mano, sono stati superati dalla semplice denotazione, ipostatizzata a livello stilistico): esse rappresentano il rovesciamento di quella specie di firma che Hitchcock aveva messo con la sua corpulenta presenza dotata di uno stetson in testa poco fuori l'ufficio di Marion Crane.

Il fatto di inserire due piani di nuvole all'interno della scena, forse, più famosa della Storia del cinema, rappresenta in pieno l'inserimento di Van Sant (attraverso l'equazione che lo vede contraddistinto dall'immagine delle nuvole) all'interno di quella Storia che ha tanto amato e di cui, spesso e volentieri, si è cibato nel corso della sua carriera. Dall'altro lato, l'inserimento di inserti esplicitamente non diegetici e non comparativi nel segmento dell'omicidio di Arbogast (una donna seminuda con maschera ed un vitello sulla strada), configura un'interpolazione totalmente arbitraria, sia nei confronti del significante di riferimento (lo Psycho di Hitchcock), sia nei confronti della forma cinematografica, che pone la materia filmica in uno stato di corto circuito tra passato e presente, tra mito e copia conforme e tra il Cinema e l'epigono. Un cortocircuito che si evidenzia in alcune scelte di messa in scena che non fanno altro che suggerire come lo Psycho di Van Sant non sia altro che il negativo (nell'accezione fotografica) del film di Hitchcock, una sorta di visione speculare che capovolge certezze e disposizioni. Abbondano, infatti, e molto più che in Hitchcock, gli specchi, la presenza dei quali (oltre che ribadire lo sdoppiamento della personalità) si fa sensibile sia nella stanza dell'hotel all'inizio del film, sia nella camera della madre di Norman verso la fine. Così come la visione speculare impone una collocazione di fatto contraria alla fattualità della riproduzione, così anche Van Sant capovolge la sua stessa messa in scena disponendo personaggi e realizzando movimenti di macchina che si pongono come opposti a quelli operati da Hitchcock. Già il lento muoversi iniziale della mdp, che penetra attraverso la finestra della stanza d'albergo, segue una direzione che si oppone vettorialmente alla stessa situazione realizzata nel '60; anche lo sguardo della Marion attuale sulle targhe delle automobili si posa in modo antitetico rispetto all'omologa scena hitchcockiana, mentre la disposizione della donna e del venditore nell'inquadratura che li ritrae nell'atto della contrattazione, è sostanzialmente invertita nel film di Van Sant; per non citare poi, infine, la posizione contrapposta in cui nelle pellicole le due Lila Crane vedono l'impronta della supposta signora Bates sul letto della stanza da letto.

Un film, quello di Van Sant, che attualizza il mito di Hitchcock sentendosene pienamente parte, e che organizza la rappresentazione come ri-presentazione secondo una dimensione speculare e per questo, nonostante l'appropriazione, rispettosa dell'originale. Con un solo scarto narrativo rilevante e, proprio perché unico, notevolmente eversivo: l'aggiunta della soggettiva di Norman mentre il poliziotto gli porge la coperta, subito prima della celebre carrellata finale. Tale inquadratura, assente in Hitchcock, sposta l'asse della prospettiva in un'ottica spettatoriale: il pubblico, grazie all'assunzione del punto di vista di Norman, si identifica suo malgrado con il turbato personaggio, arrivando a riflettere sulla sua stessa natura voyeuristica che lo ha portato a vedere un film pur sapendo in anticipo come si sarebbero svolti i fatti. Così, solo per un vizio dello sguardo.

 


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