Ray (Melissa Leo), bianca americana, e Lila (Misty Upham), indigena Mohawk, sono due donne di frontiera, sole. Il confine, teatro della loro battaglia per la sopravvivenza, è quello che separa il Canada dagli Usa, una terra di ghiaccio attraversata dal fiume San Lorenzo. In mezzo, la riserva dei nativi americani Mohawk, una delle tribù che nel 1142 fondarono la Confederazione Irochese (in seguito Lega delle Sei Nazioni). Gli indigeni combatterono al fianco di Re Giorgio III d’Inghilterra contro i coloni ribelli durante la rivoluzione che generò gli Stati Uniti d’America. I Mohawk, popolo dell’argento, controllori della porta orientale, difesero strenuamente le loro terre dall’avanzata dei coloni. Oggi Lila l’indigena e Ray la bianca, su quelle stesse terre, contrabbandano uomini e donne cinesi e pakistani che cercano di raggiungere il loro mondo nuovo. Una sintesi tra due culture che farebbe schiumare di rabbia il grande antropologo Lévi–Strauss.
Frozen River è un western dove alla polvere del west si sostituisce la neve sporca del nord. Le due protagoniste, prima rivali, stringono un silenzioso patto di disperazione. Ray deve trovare i soldi per la sua nuova casa prefabbricata, ha un lavoro part time in un supermarket di zona, due figli, e un marito con il vizio del gioco scomparso nel nulla con tutti i risparmi della famiglia. Lila è vedova, il suo uomo era un contrabbandiere morto mentre attraversava il fiume gelato, vive ai margini della sua comunità, e vuole riprendersi il figlioletto di un anno sottrattogli dalla suocera. La mitologia del film western di John Ford e Howard Hawks era fatta di uomini rudi, indiani assassini, terre da conquistare: uno spazio dove parlavano le armi e l’ordine era garantito dal codice d’onore più che dalla legge. La regista e sceneggiatrice Courtney Hunt, qui al suo esordio, fa esplodere i tratti del genere, raccontando una storia del XXI secolo. Gli eroi sono donne, conquistatori e indigeni non si fanno a pezzi tra loro, i nuovi barbari, i migranti, hanno soppiantato i vecchi selvaggi. Ray attraversa in macchina, e non più a cavallo, i sobborghi dello stato di New York, ma non rinuncia alla pistola, l’arma non sta più appesa al cinturone ma infilata sotto la giacca a vento dentro l’elastico dei jeans. Lo sceriffo mezzo ubriaco delle vecchie e assolate città dell’ovest è qui un ranger annoiato e indifferente rassegnato all’impotenza della legge. Courtney Hunt sceglie di raccontare una storia di madri che lottano per i loro figli, e si ritrova a maneggiare temi fondanti del tempo presente: l’immigrazione, la crisi economica, la convivenza tra genti diverse. Tutti hanno paura, tutti vogliono farcela, ma sopravvive solo chi ha il coraggio di mordere e soffocare la propria coscienza. Le regole le hanno fatte altri, quelli che vivono le loro esistenze lontani dalla frontiera, protetti dalle loro economie e dai loro oggetti, ignorando che i meccanismi che permettono la ricchezza di pochi hanno il bisogno fisiologico e meccanico della disperazione di molti.
Nel 1929 il futuro ministro della Repubblica Francese Paul Doumer, a margine di un incontro organizzato a Parigi sul concetto di civiltà sostenne che "la civiltà coincide con l’ordine, stabilito dalla polizia, che garantisce la sicurezza per le persone e per i beni, che protegge la libertà del lavoro e delle transizioni commerciali […] la civiltà ha dei diritti contro la barbarie". La domanda da fare è chi sia oggi a incarnare la barbarie. Ray che dai coloni europei discende e vive in una terra che fu conquistata con il sangue? Lila i cui padri combatterono contro quei coloni dissidenti e oggi traffica clandestini? I migranti che scappano dalle loro terre perché vogliono un futuro? O quelli che da lontano dirigono il gioco? Se dovessimo tenere in considerazione il brusio politico xenofobo dei nostri governanti sembrerebbe che, dopo ottant'anni, le linee guida continuino a essere quelle del vecchio Doumer.
Il film, se si rifugge lo stereotipo alla Thelma & Louise, favorisce la riflessione. La desolazione dei paesaggi innevati ha l’effetto positivo di destabilizzare lo sguardo dello spettatore, come già accadeva in Insomnia di Christopher Nolan (2002). Il viso dolente della protagonista ha incise, lungo i segni che il dolore ha regalato al suo personaggio, le parole di Roman Gary: "questo lato disumano fa parte dell’umano. Finché non riconosceremo che la disumanità è una cosa umana, resteremo in una pia menzogna".
TITOLO ORIGINALE: Frozen River; REGIA: Courtney Hunt; SCENEGGIATURA: Courtney Hunt; FOTOGRAFIA: Reed Morano; MONTAGGIO: Kate Williams; MUSICA: Peter Golub, Shahzad Ismaily; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2008; DURATA: 97 min.
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