65 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia PDF 
Lorenzo De Nicola   

ImageVenezia 65. Ancora Marco Müller al timone. Ancora leoni targati Dante Ferretti che, questa volta, spuntano faticosamente da guaine che impacchettano il palazzo del cinema e accompagnano gli ospiti sul tappeto rosso della passerella. Ancora giudizi contrastanti di critica e pubblico. È il rito e la ritualità del festival che ogni anno si ripete e che ogni anno cala i suoi partecipanti in un’atmosfera unica, derivante dall’isolamento del Lido con i suoi tempi e le sue dinamiche, dalle proiezioni a ritmo battente fino a tarda notte, dalle feste (poche), dalle emozioni che “piovono” dal grande schermo. Un’edizione quella appena conclusa che, sin dai primi giorni, pareva spiazzante per l’eterogeneità dei titoli e per un concorso che si presumeva debole. Invece, soprattutto dopo la proiezione dell’ultimo film, The Wrestler di Darren Aronofsky, il bilancio conclusivo ha rivelato un concorso nonostante tutto interessante. Non pochi, tuttavia, i film la cui presenza in concorso aveva suscitato diffuse perplessità. Purtroppo, su tutti, i forse troppo numerosi titoli italiani: Il papà di Giovanna di Pupi Avati, Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, Birdwatchers di Marco Bechis e Il seme della discordia di Pappi Corsicato. Avati e Ozpetek confezionano due opere molto diverse tra loro ma accomunate da una sceneggiatura debole e sfilacciata che nemmeno le buone interpretazioni di Silvio Orlando (che si è aggiudicato la Coppa Volpi) e Valerio Mastandrea, sembrano riuscire a raddrizzare.

ImageDiscorso diverso per Bechis che si avventura nel difficile racconto della drammatica condizioni degli indios di un Brasile ancora “colonizzato” in cui la terra, la loro terra, è stata depredata e appartiene a ricchi fazenderos. Un tema difficile e spinoso che il regista di Garage Olimpo riesce comunque ad articolare non senza una certa eleganza, evitando sia il facile tranello del patetismo, sia l’insidia di una retorica folkloristica. Pappi Corsicato ritorna dietro la macchina da presa dopo Chimera che data ormai 2001. Il suo film leggero e frizzante, costruito sulla singolare bellezza di Caterina Murino, sfrutta la nostrana tradizione della commedia degli equivoci infarcendola di reminiscenze di un certo cinema degli anni Sessanta e Settanta e indugiando in declinazioni più o meno “pecorecce”. Ma l’Italia si è fatta notare anche per un film minore, che ha avuto però un grande successo di pubblico: Pranzo di ferragosto (Leone del Futuro, Premio Luigi De Laurentiis per un'Opera Prima). Il film scritto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, narra con toni leggeri e divertenti la solitudine di un uomo di mezza età alle prese con quattro vecchiette che si trovano a fare i conti con l’abbandono temporaneo da parte dei propri figli. Un film semplice e astuto, girato con pochi mezzi, ma che riesce comunque a colpire nel segno. La povertà di mezzi è anche la caratteristica dominante di altri due film italiani. Ne Il primo giorno d’inverno, Mirko Locatelli racconta con minimale lentezza una “provincia disadattata” che male accetta la diversità, mentre in Un altro pianeta Stefano Tummolini affronta con sfacciata goliardia amatoriale problemi quali l’omosessualità, la solitudine, la malattia. Last but absolutely not least, l’italiano d’America Below Sea Level di Gianfranco Rosi (Premio Orizzonti doc), si rivela il film più interessante del panorama produttivo nazionale. Un documentario intelligente e malinconico, frutto di quattro anni di permanenza in una comunità di “naufraghi postmoderni” autosegregatisi nel deserto a poche miglia da Los Angeles. Il film mette a nudo con vigore desolante la deriva di una società in cui povertà e ricchezza, solitudine e abbandono, integrazione ed emarginazione convivono generando contraddizioni ai confini della realtà.

ImageQuello di Rosi è solo uno dei tasselli del mosaico su una nazione alla deriva, quella americana, che è parso affiorare pellicola dopo pellicola come uno dei disegni sottostanti le scelte dei selezionatori. Ben quattro erano i film americani in concorso. Rachel Getting Married, in cui Jonathan Demme racconta la storia irrisolta di Kim (una strepitosa Anne Hathaway) che ritorna a casa per il matrimonio della sorella con un insostenibile bagaglio di sofferenza e frustrazione dovuto a una tragedia vissuta nell’adolescenza e all’abuso di droghe. Demme mette in scena una famiglia dilaniata la cui unione è costantemente messa in crisi, malgrado gli sforzi da parte dei suoi componenti, e che non trova pacificazione nemmeno di fronte alla celebrazione di un nuovo inizio. Ingiustamente non premiato, quello di Demme ci è parso il film più completo della Mostra. L’esplosione di un nucleo familiare è al centro anche della pellicola di Amir Naderi, che con Vegas reinterpreta il mito americano della gold rush posizionando il “ricco bottino” e le speranze collegate al suo ritrovamento nel giardino di un’umile casa alla periferia della città del denaro per eccellenza: Las Vegas. Come nei film precedenti il regista si focalizza sull’ossessione che in questo caso porta alla distruzione letterale dei protagonisti di questa storia dai toni grotteschi e decadenti.

ImageLa decadenza domina anche nel film vincitore del Leone d’Oro. La vita di Randy “The Ram” (Mickey Rourke) è infatti il centro narrativo di The Wrestler di Darren Aronofsky, che con quest’opera si riscatta dall’insuccesso ottenuto con The Fountain presentato, sempre a Venezia, nel 2006. La maschera tragica di Mickey Rourke – malconcio capellone ossigenato a metà tra il leader degli Skid Row e Megalomen – che si trascina da un ring all’altro alla ricerca dei fasti di un passato che non ritornerà e al contempo dell’oblio del personale disastro esistenziale, è l’ennesimo emblema di una società fatiscente. Il wrestling, apoteosi della vertigine della finzione, diventa così specchio malinconico e patetico di un sistema in cui lo spettacolo si giustifica di per se stesso senza neanche perder tempo a trovare un senso a una vacuità che regna sovrana. Affresco complesso di un’America che ha il volto tumefatto dalle botte e dal bisturi come il suo protagonista costretto a combattere un’ultima necessaria battaglia contro un grottesco e ironico Ayatollāh. Se nella figura del wrestler dalla pelle olivastra si può leggere un’intelligente metafora della contemporaneità americana, l’ennesima ben più esplicita variazione sul tema della Guerra in Iraq porta la firma di Kathryn Bigelow. Con The Hurt Locker la più mascolina delle registe in circolazione mette in scena un gruppo di artificieri impegnati a disinnescare tonnellate di esplosivo in giro per le zone di guerra. Un film dell’orrore in cui la tensione serpeggiante non molla la morsa neanche per un attimo, insistendo sulla costante minaccia che si annida in ogni angolo di strada, tra la gente, tra le macerie, tra le carcasse di auto, dietro le finestre. Un film che celebra la nefasta dipendenza fisica e psicologica dalla guerra con le inevitabili conseguenze di morte e distruzione.

ImageAltre eccellenze del concorso sono Papier Soldier di  Aleksey German jr., che si è meritatamente aggiudicato il Leone d'Argento e il premio per la migliore regia con questo claustrofobico racconto sul primo tentativo di lancio sulla luna del 1961, e L’autre di Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic, altrettanto claustrofobico ed estremo racconto di una storia d’amore e gelosia femminile. Altre opere incisive non mancavano nelle sezioni parallele. Una su tutte Muukalainen (The Visitor) di Jukka-Pekka Valkeapaa, che, in una desolante foresta finlandese, segue il percorso di formazione di un bambino alle prese con la solitudine della madre, la prigionia del padre e l’inaspettato arrivo di uno sconosciuto. La sceneggiatura, in cui i dialoghi sono a dir poco rarefatti, punta tutto sulla creazione di atmosfere “desaturate”, lacerate da improvvise esplosioni di efferata e covata violenza. Ma anche il brillante Pescuit Sportiv di Adrian Sitaru per "Le Giornate degli Autori"; Kuvari Noci di Namik Kamil per "La Settimana Internazionale della Critica"; Z32 di Avi Mograbi, A Erva do Rato di Julio Bressane; In Paraguay di Ross McElwee per la sezione "Orizzonti".

ImageIn un’annata più che mai spinosa, a quaranta anni dalla contestata edizione del 1968 (celebrata nel documentario Venezia ’68 di Antonello Sarno), il compito dei giurati non è stato certo facile. La giuria – presieduta da  Wim Wenders e composta da Juriy Arabov, Valeria Golino, Douglas Gordon, Lucrecia Martel, John Landis, Johnnie To – è stata comunque capace di comporre un palmares che rispecchia abbastanza fedelmente ciò che di meglio si è visto sugli schermi del Lido in un’edizione eclettica ed eterogenea in cui si sono affrontati temi attuali come la guerra, l’adozione, la solitudine e l’alienazione, i contrasti religiosi e sessuali, il lavoro e le morti sul lavoro. E in cui si sono omaggiati anche i grandi e i piccoli nomi del cinema nostrano con la retrospettiva su Olmi e la rassegna denominata "Questi fantasmi" che aveva lo scopo di riportare sugli schermi quelle pellicole veramente dimenticate, quasi uno scavo archeologico del cinema dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta.

 


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