Two Lovers PDF 
Michele Segala   

Nel 1976 Lou Reed fece pubblicare un album intitolato Coney Island Baby. Reed è una delle tante icone newyorchesi, e il suo album, splendido, sordido, lussurioso, e romantico, è un piccolo capolavoro che potrebbe benissimo rappresentare tutta la New York degli anni Settanta. James Gray, newyorchese come il fondatore dei Velvet Underground, con il suo ultimo Two Lovers ha creato un film che, a trent'anni di distanza, si presenta come un magnifico ritratto di una "certa" New York. E lo ha fatto riportando il cinema indietro, agli anni del migliore Allen, della New Hollywood (in particolare gli anni di Scorsese), e tratteggiando una storia d’amore che ha come punto di partenza una piccola parte di New York: Coney Island, o meglio – nel caso di Gray – una piccola parte di Coney Island che va sotto il nome di Brighton Beach. Gli anni Settanta si palesano nell’intento di Gray di attribuire come palcoscenico del film gli interni degli appartamenti  di Brighton Beach (l’appartamento degli ebrei Kraditor pare uscito da uno qualsiasi dei film dell’Allen tra anni Settanta e Ottanta: piccolo, confortevole, fotografie di antenati in b/n sui muri), mentre gli esterni riportano ad una Hollywood addirittura precedente (la location dei dialoghi tra Michelle e Leonard – ovvero i due palazzi separati da un cortile – possono riportare alla mente West End Story, mentre l’idea di Leonard che osserva la vicina, talvolta facendo uso della sua macchina fotografica, è un ovvio rimando a Hitchcock).

Ma Two Lovers è molto più di un film che omaggia la New York degli anni Settanta (e il cinema ad essa legato), perché di fatto l’intenzione esibita da James Gray in tutta la pellicola è di legare i protagonisti, la vicenda tutta, e la regia stessa, ad un concetto: l’amore come proiezione dei propri desideri. Nell’ultimo incontro tra il protagonista e Michelle sul tetto, Leonard dice a Michelle quello che probabilmente vorrebbe sentir detto a sé. Così la regia di Gray, seguendo Leonard in ogni passo, dà forma e “visibilità” alle sue fantasie con sequenze accompagnate da passaggi musicali che dipingono un’atmosfera da sogno (e si deve tener conto che ogni musica sembra legata indissolubilmente a Michelle: gli strumentali che accompagnano Leonard sono tutti ispirati all’Opera, che Michelle sembra amare tanto, e in particolare a Manon Lescaut). Michelle è il suo desiderio, e il mondo attorno a lei – come spesso accade con gli amanti – si trasforma in sua funzione, anche grazie alla musica: Leonard deve incontrarla al ristorante, e ne è accompagnato dalla suntuosa (e riconoscibilissima) Lujon di Henry Mancini; quando parla con lei di finestra in finestra un jazz bop anni Cinquanta/Sessanta si sente in lontananza, come se fossimo in un melò o in un musical di quegli anni.

Dall’altra parte, l’altra donna, Sandra, sembra rappresentare una dimensione più terrena per Leonard, una possibilità per lui di ancorarsi di più alla realtà, tanto che la dimensione (all’interno del film) che più è pertinente nel suo rapporto con Sandra non è più la musica, ma l’immagine: mentre con Michelle Leonard usa la macchina fotografica apparentemente solo per attirarne l’attenzione (parlandole, o facendone scattare il flash per farla voltare verso di lui quando lei è alla finestra), Sandra vede invece le sue foto, e spinge Leonard a farne ancora. Ma – si noti – non senza modificare la natura stessa di quelle immagini: Leonard chiarisce dapprima che i suoi sono tutti ritratti di paesaggi, che non ci sono persone, perché “le persone guardano le foto, quindi non devono esserci”, ma per Sandra accetterà di fare foto esplicitamente “di persone” (per il bar mitzvah del fratellino di lei). Sandra esiste quindi in completa contrapposizione a Michelle: Michelle è l’idealizzazione (o l’attualizzazione) dei desideri di Leonard più intimi, quelli che lo legano inevitabilmente alla parte più emotiva, e persino più infantile di sé, e per Leonard è l’affrancamento totale dal mondo a cui è relegato (per sicurezza, ma, se si vuole, anche per il suo stesso bene). Ovvero: il mondo dei suoi genitori, con gli antenati che lo guardano dalle foto (ancora: la forza delle immagini che cercano di riportarlo alla realtà), la madre possessiva e il padre che tenta di coinvolgerlo nella fusione con l’azienda dei genitori di Sandra. Sandra è la personificazione di un mondo reale, in cui i desideri hanno meno peso, e in cui a contare di più sono le certezze e le sicurezze: la sicurezza che lei ci sarà sempre per lui, che “si prenderà cura di lui” (come lei stessa gli dice, in un’identificazione perfetta con l’idea inclusiva e materna di amore femminile), e che lo traghetterà in porti sicuri.

E allora: Leonard è un “bambino di Coney Island”, e Coney Island (per molti americani, ma non solo per loro) è non a caso la terra dell’infanzia, dei balocchi, con il suo antico Luna Park (purtroppo recentemente demolito), in contrapposizione ideale alla realtà di Manhattan (che si staglia in lontananza, ben visibile, oltre le acque). Leonard è un adulto intrappolato da molto tempo in uno stato indefinito che non gli permette né di risolvere (o esaudire) i propri desideri, né di abbandonarli per essere un adulto compiuto (come molti altri). Da un lato ci sono Coney Island, la famiglia (o le famiglie), Sandra, le certezze di un nucleo di persone che vogliono il suo bene, che certamente non vogliono che tenti ancora di togliersi la vita, ma che allo stesso tempo non lo capiscono, ma che diranno di capirlo sempre, anche solo per dargli conforto. Dall’altro lato ci sono i suoi desideri e le sue proiezioni, c’è sicuramente Michelle, della quale Leonard cerca quasi di fare un “doppio di sé” (più che identificarla come sua anima gemella), Michelle che non lo ama di un amore onnicomprensivo, che non dice di capirlo (o di volerlo fare), perché due ciechi non si riconoscono alla vista, ma si possono solo toccare… E oltre a Michelle (forse grazie a Michelle), c’è il resto del mondo: non solo New York, ma luoghi altri (la fantasticata San Francisco), lontani migliaia di chilometri dalle radici e dai turbamenti di Leonard.

In mezzo, fatalmente, c’è l’acqua, l’oblio, l’annullamento. Quell’acqua e quel ricercato oblio che appare ad inizio e conclusione del film: Leonard sa che quella è l’unica scelta che gli rimarrà se non accetterà nessuno dei due mondi. Per questo il finale di Two Lovers, lo struggimento doloroso sulla baia di Brighton Beach – e l’identificazione di questo finale con quello de La dolce vita felliniana –, e la sua coda nel solito vecchio appartamento dei Kraditor, con il suo scambio eloquente di sguardi – che, non a caso, sono come scatti di una macchina fotografica – prima dalla madre a Leonard, e poi da Leonard a Sandra, sono assieme la certificazione della scelta compiuta da Leonard: quello di un mondo reale, sicuro, lontano dalle speranze che aveva cullato. Il dolore che si porta appresso, che condivide con la madre, in un silenzioso patto fatto sempre da sguardi, ad intendere che no, non era quella la felicità che desiderava, è calmierato (o reso meno udibile) da un vociare sereno di famigliari e persone che gli vogliono bene.

TITOLO ORIGINALE: Two Lovers; REGIA: James Gray; SCENEGGIATURA: James Gray, Ric Menello; FOTOGRAFIA: Joaquín Baca-Asay; MONTAGGIO: John Axelrad; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2008; DURATA: 110 min.

 


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